giovedì 6 aprile 2017

Il suono delle campane, di Renzo Montagnoli



                                                     Foto da Internet



Il suono delle campane
di Renzo Montagnoli






Il primo chiarore dell’alba riuscì a infilarsi fra le fitte maglie della grata che chiudeva l’unica finestrella della stalla e un piccolo raggio andò a colpire gli occhi dell’uomo che dormiva in una mangiatoia, steso sulla paglia e coperto appena da un vecchio pastrano militare. Annibale Chiocchetti aprì l’unico occhio che gli era rimasto e, ancora addormentato, si chiese dove mai si trovasse. Poi si sovvenne della lunga camminata che aveva fatto il giorno prima da Reggio a Codisotto, di quella casa colonica in cui si era imbattuto quando ormai erano già scese le ombre della sera, dell’accoglienza ricevuta dai suoi abitanti che non conosceva, del pasto caldo consumato e infine dell’agognato riposo in quella stalla. Vicino a lui sentiva delle mucche muggire e il tipico rumore del latte appena munto che cadeva nel secchio.
Hai dormito bene?
Ero talmente stanco che mi sarei coricato anche per terra.
Il contadino gli allungò una tazza di latte fumante e una fetta di polenta riscaldata nella cenere.
Non ho altro, ma comunque è meglio di niente.
Il Guercio, che era il nome di battaglia da partigiano e che gli sarebbe rimasto appiccicato tutta la vita, ringraziò, poi divorò quell’umile, ma sana colazione.
Se vuoi lavarti, la pompa é nell’abbeveratoio di fuori. E’ acqua fredda, ma risveglia bene.
Sì, era decisamente fredda, un getto gelato che inondava il viso con la barba di tre giorni, ma era quello che ci voleva per affrettarsi a riprendere il cammino verso casa. Il contadino lo osservava, incerto su qualche cosa che voleva chiedergli, poi si decise: -Eri un partigiano?
Sì, un partigiano, operante sull’Appennino e che ha partecipato alla liberazione di Reggio. Poi siamo stati costretti a restare, per consegnare le armi agli americani, ma ieri mattina abbiamo avuto il via libera e allora tutti, con ogni mezzo, ma soprattutto a piedi, ci siamo fiondati verso casa.
Brutta cosa la guerra, brutta cosa soprattutto la guerra civile. - disse il contadino. Poi aggiunse:- Avevo un figlio, anzi ne avevo due, che non torneranno, uno, un partigiano come te, è stato ucciso in un rastrellamento, l’altro non era della stessa idea, stravedeva per Mussolini e dopo l’8 settembre è entrato nelle Brigate Nere. Morto anche lui, durante un rastrellamento. E magari sei stato tu a sparargli, ma poco importa, perché l’uno e l’altro non ci sono più.
Può anche essere che sia stato io a sparargli, ma ho sparato tante volte, anche perché sparavano a me. Sì, brutta cosa é la guerra, un’esperienza che non potrò mai dimenticare.
Il contadino mise in un cesto tre fette di polenta, un mezzo salame e un pezzo di formaggio. -Ti serviranno lungo il viaggio per arrivare a casa.
Grazie. - disse il Guercio e riprese il suo cammino. Fatti pochi passi si voltò per guardare quell’uomo che l’aveva aiutato e solo allora si accorse delle lacrime che solcavano il suo viso.
Brutta cosa è la guerra. - disse a voce alta e quello rispose, correndo dentro la stalla:- Una guerra non finisce mai, anche per chi resta.
Già il sole s’era ampiamente affacciato a oriente mentre il Guercio percorreva la strada diretta al Po, un tempo così ben tenuta, ma ora disastrata, costellata dai crateri delle bombe che l’avevano colpita. Sperò di trovare un passaggio, un camion, un carro, insomma qualsiasi mezzo per arrivare alla svelta, ma era una speranza vana. Pressochè deserta, era percorsa solo da qualcuno che magari si era congedato come lui. Lo stupì il silenzio, l’assenza di suoni, fatta eccezione per i latrati di qualche cane lontano. Era ormai primavera, ma non s’udiva il canto degli uccelli, né si vedevano, forse ancora impauriti dalla battaglia di alcuni giorni prima. Poi udì un suono, un suono di campane che chiamavano alla prima Messa. In verità erano più suoni che sembravano rincorrersi nell’aria, una serie di note che sapevano di tempo andato, tanto che pareva perduto e lui si commosse. Pensò alla sua casa, a cui contava di arrivare il più presto possibile, a sua madre, a sua moglie e al suo bambino e nel rivedere quei volti che l’ultima volta aveva scorto più di un anno prima iniziò a piangere, calde lacrime che non lo stordivano, ma lo facevano sentire meglio, che gli dicevano, scivolando fra i peli della barba, che l’incubo era finito e che era tempo di tornare a vivere.
Sentiva nascere dentro di sé un anelito, una speranza in un mondo diverso, senza più spari, senza più scoppi, ma era inevitabile allora volgersi indietro, ai tanti compagni di quell’avventura che aveva lasciato sotto croci di legno, a gente come lui che mai avrebbe visto la fine di quella catastrofe: il prete rosso, fucilato dai fascisti, Giuanin di Gualtieri, torturato e ucciso, il loro primo comandante Gambalesta che, ferito, era morto per coprire la ritirata dei suoi uomini e di tanti altri di cui non avrebbe mai saputo il vero nome, ma che, fra un passo e l’altro verso casa, sembravano affiancarsi, ombre sfumate che accompagnavano il suo ritorno e che mai avrebbe dimenticato, come non si sarebbe mai scordato gli occhi impauriti e imploranti di una spia che avevano fucilato, niente più di un ragazzo cresciuto dalla parte sbagliata.
La strada era accidentata per via dei crateri, ma ogni tanto gli capitava di trovare una bomba d’aereo inesplosa, conficcata nel terreno, e allora era opportuna una deviazione, per sicurezza., magari in mezzo i campi, sempre con il timore che fossero minati. E qui si sorprendeva, sgomento, nel vedere i filari di viti tagliate al piede, gli alberi da frutto schiantati, segno evidente che i tedeschi in ritirata avevano voluto lasciare ancora una volta il segno della loro ferocia, come se un mondo senza il terzo Reich non dovesse essere che desolazione e dannazione. Non seguiva più in pratica la strada, andava per i campi sui quali l’umida erba si cullava al sole primaverile; temette a un certo punto di aver sbagliato strada, ma poi disse a se stesso che in ogni caso era a Nord che doveva andare per arrivare al grande fiume, di cui in distanza gli pareva già di scorgere gli alti argini. Non sapeva che ore fossero, perché non aveva l’orologio, ma dalla posizione del sole pensò che forse erano le 8 o le 9 di mattina e mentre faceva questi calcoli andava, accelerando il passo, così che senza quasi accorgersi si trovò ai piedi dell’argine. Oltre c’era il Po e sull’altra riva il suo paese, la sua casa, quel piccolo mondo che aveva lasciato e che ora fremeva per il desiderio di tornare a farne parte. Salì sull’argine e guardò la grande massa d’acqua, che più sotto scorreva. Come aveva temuto il ponte di barche non c’era più e allora volse lo sguardo a sinistra, verso il ponte in ferro della ferrovia, ma non vide che lamiere contorte e piloni abbattuti.
Il fiume sotto scorreva tranquillo e l’acqua era solcata da alcune barche, con i rematori che, ritti in piedi, affondavano il remo ritmicamente e con apparente tranquillità. Guardò giù e si accorse che sulla riva sabbiosa erano allineati dei corpi intorno ai quali si muovevano alcuni uomini; scese e mano a mano che s’avvicinava all’acqua notò che quei cadaveri, gonfi come otri piene, indossavano una divisa tedesca. Da una barca, attraccata alla riva, ne stavano scaricando altri. Rimase sconcertato e allora uno degli uomini che allineavano i morti gli disse: - Anche oggi la pesca è buona.
- La pesca? - gli rispose Annibale. - Sì, questi disgraziati negli ultimi giorni di guerra, pur di scappare, hanno cercato di attraversare il fiume con qualsiasi mezzo, a volte addirittura aggrappati alle assi per fare la pasta. Si vede che non sapevano che, sotto quell’aria sorniona, il Po è traditore e ne sono annegati a centinaia. É da una settimana che ne tiriamo su; gli americani ci danno 500 lire per ogni cadavere e di questi tempi non si può fare gli schizzinosi. E poi, cosa volete che vi dica, mi fa anche piacere vedere come questi superuomini si sono ridotti. Annibale li osservava, uno per uno e a un certo punto provò sgomento: - Ma sono quasi dei bambini! - Che ci volete fare, ormai, quando mancano le braccia, tutti sono buoni per diventare carne da cannone. Ma a me sembra di conoscervi. Siete per caso del paese?
- Sono del paese e anche voi non mi sembrate un viso nuovo. Il mio nome é Annibale Chiocchetti. - Ma certo, lo sposo della Tilde. Adesso ricordo, ma siete un po’ cambiato; si diceva che stavate coi partigiani. - E’ vero, ero coi partigiani e sono cambiato; con una guerra, prima il fronte greco, poi la Resistenza non si è più quelli.
- “Non so se vi ricordate di me, ma sono Mariin, il figlio della Festona e di Giuachin, gli ambulanti di frutta e verdura. - Ricordo i vostri genitori, ma voi non siete quasi mai stato in paese, mi pare che lavoravate a Milano. - Sì, ma poi, un bombardamento oggi, uno domani, ho deciso di rientrare, anche se poi anche qui, con la faccenda del ponte, di bombe ne cadevano spesso; a essere del tutto sincero, là con il razionamento non si mangiava, ma qui, con la campagna,non ho rischiato di finire a pelle e ossa. Annibale continuava a guardare i corpi, si era incupito e si passava una mano sui capelli.
- Li ho sempre odiati e li odio anche ora da morti. - fece l’altro.
- Anch’io li ho odiati quando facevano i rastrellamenti e incendiavano le case, uccidevano gli uomini e violavano le donne, ma ora, nel vedere questi corpi sfatti, penso che non abbiano mai avuto una gioventù, non siano mai stati in grado di costruirsi un futuro diverso da quello imposto da un folle dittatore, e poi mi vengono in mente le mamme che aspetteranno invano. No, ora non provo odio, ma solo tanta pietà. - disse Annibale.
- Se volete vi do un passaggio fino all’altra riva.
- Sì, grazie, cosa vi devo dare in cambio?
Ma niente, ci mancherebbe altro.
Raggiunta l’altra sponda, Annibale scese, strinse le mani a Mariin e comunque volle sdebitarsi, dandogli un pacchetto di sigarette americane, un regalo molto gradito anche dai non fumatori, in quanto considerato buona merce di scambio.
Si avviò di buon passo, nonostante gli dolessero i piedi; alla meta ormai mancavano solo un paio di chilometri, che tuttavia finirono con il sembrargli molti di più. Anche lì la strada era martoriata dalle buche provocate dai bombardamenti, ma più andava avanti, più ogni cosa gli diventava familiare, e così finì per giudicarla non così malmessa. Le campane suonavano di nuovo, era domenica e la messa doveva essere finita. Nelle orecchie udiva ancora le parole di Don Zeffirino <<Ite missa est>> e gli sembrava di vedere la gente che usciva dalla chiesa per poi fermarsi sul sagrato per scambiarsi le consuete due parole. Sperò tanto di arrivare in tempo e accelerò ulteriormente fino a quando, in fondo al breve rettilineo, scorse il campanile, poi la chiesa e infine la gente, la sua gente che vi sostava davanti. Erano tanti, quasi tutto il paese; qualcuno lo vide arrivare, ci fu chi lo riconobbe e allora si udì un grido: - E’ tornato Annibale!. E un altro, un altro ancora, in breve fu un coro. E quando scorse fra i tanti sua moglie, sua madre, il bambino e Don Zeffirino che li abbracciava felice, si accorse di piangere, non vide più quella calca che fendeva, che voleva toccarlo, non udì più le parole di saluto e gli parve di volare. Si strinse ai suoi, senza parlare, in un lungo fremente abbraccio, da cui si sciolse lentamente per dire, con voce tremante: - Andiamo a casa, la tempesta è finita ed è tornato il sole.


Da Storie di paese


2 commenti:

  1. Semplicemente bello, Renzo, questo racconto che coinvolge dall'inizio fino alla conclusione. Amo molto la figura del Guercio, che ormai mi pare di conoscere da sempre, e queste tue storie sono bellissime, coinvolgenti e scritte con rara sensibilità.
    Grazie.
    Piera

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  2. Bellissimo racconto, andrebbe letto nelle scuole. Bravo, Renzo!
    Giovanna

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