venerdì 4 luglio 2014

Sinfonia agreste, di Maria Teresa Santalucia Scibona


                                                                    Foto da web


Sinfonia agreste
di Maria Teresa Santalucia Scibona


Al mio amico Alfio Bellucci


La primavera era giunta,
sui diletti pascoli
ornata di monili
e fregi d’oro.

Sotto lo sguardo ardito
dei papaveri. Ballavano
le margherite, scuotendo
il giallo capolino al ritmo
sonoro del vento che aveva
imbastito l’allegra serenata.
per farle innamorare.

La terra genitrice
leggiadra  verdeggiante
di frondose ramaglie,
opimi frutti spandeva
generosa, sulle scoscese balze
e sui morbidi clivi


Da Le rotte del vento (Raffaelli, 2014)


 Leggetela con le note di Vivaldi:




Le rotte del vento, di Maria Teresa Santalucia Scibona




Le rotte del vento
(Los rumbos del viento)
di Maria Teresa Santalucia Scibona
Prefazione di Renzo Montagnoli
Versione in spagnolo di Emilio Coco
Raffaelli Editore
Poesia
Pagine 55
ISBN 9788867920402
Prezzo €12,00


Estatico abbandono


Dalle sommità dell’Appennino scende il vento, precipita in forre oscure, da cui poi risale per rotolare lungo le chine delle dolci colline senesi e infine va a placare la sua irruenza, distendendosi nell’amena e bucolica campagna toscana. Viene e porta con sé voci armoniche, versi soffusi di languida malinconia che l’esile, ma ferma mano di Maria Teresa Santalucia Scibona ha segnato su fogli di carta bianca che ora svolazzano, s’insinuano in ogni pertugio, fino a quando trovano una finestra aperta e, quasi per miracolo, si ricompongono sul mio tavolo.
Ed è così che li leggo, ancora odorosi di resina di pino, ancor olezzanti delle mille essenze vitali di una natura che mi par di sentire amica. E sono d’amicizia queste poesie, dedicate quasi tutte a persone con cui l’autrice è riuscita a entrare in sintonia, tanto che l’hanno ispirata. Per quanto i temi discussi siano i più vari, di questa natura c’è più di una traccia, c’è anzi un estatico abbandono da cui riemergere per mostrare, quasi con stupore, quanto immensamente l’anima sia stata nutrita, coccolata, vezzeggiata dall’assoluta bellezza e perfezione del creato, di cui i versi possono solo darci un’idea, per quanto sapientemente esposta (Altrove, in un altro emisfero /  la notte abbandonò l’alcova.  / Il giorno ancora assopito, / salutava l’alba mollemente / adagiata nel divano di stelle. /… oppure ancora …/ Nel tramonto ramato / non v’era alcuno, oltre me / nella silente solitudine. / Cresceva il desiderio di calarmi / fra gli spazi votivi dell’anima, per godere con lo stupore / di bimbo, l’incanto del creato.). Fra l’altro, la lirica che ho sopra riportato, oltre a essere esplicativa di quel concetto di estasi, nell’ambito della produzione di Maria Teresa Santalucia Scibona mi sembrano che con altre di questa raccolta possano costituire ancora una volta una significativa conferma di una spiccata predisposizione per un’analisi attenta del destino umano, come appare più evidente nella poesia che dona il titolo all’intera silloge. Mi riferisco a Le rotte del vento, dedicata Giampaolo Rugarli, noto narratore italiano. Credo che valga la pena di riportarla per intero: Nel mare ondeggiante / la carena silente / solca i flutti l’infrange. / Senza indizio riga / la traccia del tragitto. / Ospiti di scarsi giorni, // anche noi corrucciati / bramosi gaudenti / di terrene delizie / navighiamo a vista / eludendo ignari / le rotte del vento. In pochi versi concisi è riportata la vita di ogni uomo con una metafora di un Titanic che procede senza una meta ben precisa, cercando, inconsapevolmente, di evitare quelle rotte del vento che poi sono frutto della natura, rientrano in un disegno complesso, imprevedibile e incomprensibile, su cui si basa tutto il Creato. È tuttavia la sensibilità individuale che ci conduce a esprimerci mediando ciò che intendiamo dire con ciò che osserviamo e quello che i nostri occhi vedono è la perfezione assoluta della natura, di cui noi stessi siamo umile parte. E questa osservazione è frutto di una trascendenza che ci porta a vedere anche e soprattutto con l’anima.
A proposito di metafora, forse più che in altre sue raccolte, questo tropo è ben presente ed è il ricorso alla natura una via quasi obbligata per esprimere concetti e sensazioni.
Peraltro, da una poetessa come Maria Teresa Santalucia Scibona tutto è lecito attendersi, fuorché la banalità, i versi fini a se stessi, il compiacimento nel cercare astruserie, nell’imbarazzare il lettore con concetti incomprensibili. No, questo poetare non rientra nel suo DNA; è presente in lei invece una forza vitale, un carattere indomito, nonostante che la salute non l’assista, uno stimolo, direi, che l’induce a rendere particolare e originale, e ovviamente artistico, ogni tema trattato, anche il più comune, tanto comune da poter sembrare a una disamina superficiale di scarso o nullo interesse. Ne è una ulteriore conferma anche questa raccolta, come in Gli intrusi, un’altra metafora che sulle ali di Esopo  tratta con riuscitissimo artificio il tema spesso abusato dei difetti del progresso. Insomma, se mi è stato chiesto di prefare questa raccolta, io ho accettato, ma per quanto cerchi di porre in evidenza questo o quel pregio nulla posso di più di quello che il lettore riuscirà, in tutta libertà, a cogliere leggendo, perché non c’è nessuna difficoltà interpretativa, i versi scorrono come un tranquillo torrente al piano, i concetti sono ben sviscerati, senza possibilità che sorgano dubbi,  il piacere di un’armonia strutturale completa è sempre presente.
Potrei aggiungere: che cosa è possibile pretendere di più?  E infatti è proprio così, ma, mentre chiacchiero e volgo con la penna alla fine, un colpo di vento improvviso mi scompagina i fogli, li solleva e invano li rincorro mentre svolazzando escono fuori  e paiono accodarsi a uno stormo di migratori.  Dove andranno? Non posso saperlo, quel che è certo è che loro non eluderanno le rotte del vento.

M. Teresa Santalucia Scibona è nata e vive a Siena. Impegnata da anni in organizzazioni per la diffusione della poesia in Italia, nel 2005 la Biblioteca Universitaria senese della Facoltà di Lettere e Filosofia, ha istituito un Fondo Letterario a suo nome. Nel 2000, dal Concistoro del Mangia, è stata insignita di medaglia d'oro di civica riconoscenza, per alti meriti culturali. Nel 2009 il Comitato Direttivo Idilio Dell'Era, le ha assegnato il Premio alla Carriera "Idilio Dell'Era".
È Accademica Honoris Causa - Dama dell'Accademia Collegio de' Nobili di Firenze. È nel Consiglio "Cateriniani nel Mondo" per la Letteratura.
I suoi libri di Poesia: Il mio terreno limite (1984); I Giorni del desiderio (1988); Il Tempo Sospeso (1993); Mosè (1996); Il Viaggio Verticale (2001); Le Temps Suspendu et la Vie Assise (2002); L'Amore Imperfetto (2003); La Contesa dei Vini (2005); Il Sogno del Cavallo (2008); Nutrimenti per l'anima (2009); L'Incontro di due vite Epistolario di Mario Verdone (2010); Codice Interiore (2012).



Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 4 luglio 2014

MondoBlog

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mercoledì 25 giugno 2014

Lui e lei, di Renzo Montagnoli

                                                                    Foto da web

Lui e lei
di Renzo Montagnoli


Quando negli umidi giorni di novembre scende la nebbia ad avvolgere ogni cosa, rendendo spettrale la visione del mondo che ci circonda, tanto da avvertire un brivido interno, una sorta di freddo dell’anima, mi viene in mente. Ogni volta rivedo tutto come se il ricordo si materializzasse e allora il gelo sale rapido, proviene dal profondo, si aggrappa al mio corpo e mi stringe lo stomaco.
E’ stato tre anni fa, una mattina dal chiarore lattiginoso, tale da impedire la vista del pallido sole autunnale, ma non di celare i riflessi bluastri e arancioni dei lampeggianti delle auto della polizia e delle ambulanze, luci intermittenti che andavano e venivano.
Ma prima, prima il segno inconfondibile della tragedia: una sirena lacerante, poi un’altra ancora.
Già udire il suono provoca apprensione, ma sentirlo avvicinarsi sempre di più, per poi cessare di colpo vicino a dove abiti trasmette un’angoscia, la certezza che lì, a pochi metri, qualche cosa di grave è accaduto.
Non ho potuto fare a meno di voler sapere e mentre mi precipitavo in strada nella mente si creavano rapide congetture. Che si tratti di Pino, che non stava bene? No, perché lui abita più in là. Forse la signora Giovanna, sempre malaticcia. No, nemmeno lei, perché ieri è entrata in ospedale.
E intanto ero sceso in strada e affrettavo il passo verso quei riverberi di luce. No, fa che non sia uno di loro. Come potrebbe vivere l’altro? E invece penso che sia così, perché ora vedo le auto, le ambulanze e sono davanti alla casetta di lui e di lei.
Rimasi prudentemente sull’altro marciapiedi, in mezzo a tanti vicini attoniti, a gente che, come me, voleva sapere.
- Sei qui anche tu?
Mi voltai e vidi il sindaco, con gli occhi smorti, una maschera che non riusciva a celare un’intensa commozione.
- Abito vicino, Luigi; ho sentito le sirene, poi ho visto i lampeggianti nella nebbia e sono corso subito. Che è successo?
In quel momento il braccio cortese di un poliziotto si interpose fra lui e me.
- Signor sindaco, il procuratore vuole parlarle.
Lo vidi allontanarsi e sparire nella nebbia, mentre invece dalla casa uscirono degli uomini che portavano due casse di zinco.
Tutti e due, allora… E mi vennero le lacrime agli occhi.
In pochi attimi rividi immagini dimenticate, risentii voci che sembravano ormai accantonate negli archivi polverosi del passato.
“- Buona giornata. Siamo i due nuovi vicini.
- Bene arrivati.
- Grazie.”
“ - Passa sempre per questa strada con la sua cagnolina.
- Ha bisogno di un po’ di moto.
- Sarà una compagnia per lei, vero?
- Una grande compagnia”

“- Sono un ferroviere in pensione e con la liquidazione abbiamo preso questa casetta. E’ piccola, ma noi siamo solo in due e non abbiamo altri. Per fortuna che c’è un giardinetto, dove mettere le rose.
- E’ un passatempo anche il giardinaggio.
- Certo”.

Erano tutti convenevoli di buon vicinato, ma non ci presentammo nemmeno, tanto che per me loro due erano semplicemente lui e lei, niente di più di due persone un po’ avanti con gli anni e molto educate.
Tuttavia, passa un giorno, passa un altro, ogni volta veniva spesa una parola di più. L’impressione che ebbi chiara era quella di due esseri in perfetta simbiosi, nel senso che ognuno era in funzione dell’altro e del resto trovarsi in età avanzata senza parenti non faceva che rafforzare quel legame.
Erano però riservati e da loro seppi ben poco di quel che era stata la vita condotta insieme, tranne una volta.
“- Io e mia moglie avevamo anche un figlio.
Tacque un momento, come timoroso di svelare un segreto.
- Poi, aveva ventidue anni, un incidente, un ubriaco con l’auto…
E si fermò, guardandomi con gli occhi lucidi, occhi in cui si leggeva un dolore che non era passato.
Lei non disse niente, anzi gli appoggiò la mano su una spalla e sussurrò:
- Rientriamo. Ci scusi.”

Da quella rivelazione i colloqui ritornarono ai puri convenevoli, quasi se l’aver aperto il loro animo a uno sconosciuto fosse stata un’imprudenza, o forse anche una mancanza di rispetto nei miei confronti.
E quindi  ripresero i soliti saluti, o al massimo brevi accenni al tempo, o a problemi di giardinaggio.
Poi, un giorno, passando, mi accorsi che non c’era nessuno in casa, fatto piuttosto strano per l’orario, e anche al ritorno non notai anima viva. Così per diversi giorni, almeno una decina, fino a quando una mattina lo vidi che mi guardava da dietro la finestra. Feci un cenno di saluto con la mano, ma non rispose.
Solo al ritorno dalla mia passeggiata compresi che cosa era accaduto. Lui mi aspettava in giardino, sembrava quasi che avesse bisogno di dirmelo.
“ -  Mia moglie ha avuto un ictus, è totalmente paralizzata e non ragiona più.
- E’ a casa?
- Sì.
- Vedrà che poi piano piano recupera. Non si butti giù, mi raccomando. Se ha bisogno di qualche cosa, quel che posso, volentieri…”
Non rispose e a capo chino rientrò in casa.

Tre giorni dopo, la nebbia, le sirene delle ambulanze e della polizia e quelle due casse di zinco, una risposta inequivocabile alla mia domanda.
Dal quotidiano locale, il giorno dopo, appresi quel che era accaduto.
Lui, vinto dallo sconforto, aveva ucciso la moglie con due colpi di pistola e poi si era suicidato con la stessa arma. Il giornalista aveva costruito un bell’articolo, quasi strappalacrime sui problemi della solitudine, citava più volte i nomi e i cognomi dei due coniugi, quasi li avesse conosciuti.
Non ricordo più come si chiamassero, un dettaglio di nessuna importanza, a fronte di fatti che superano ogni umana comprensione, laddove l’unico elemento certo è un vincolo indissolubile anche oltre la vita.
Ecco, io li voglio ricordare così e per me saranno sempre lui e lei.


da Storie di paese


Presagio, di Andrea Molesini




Presagio
di Andrea Molesini
Sellerio Editore Palermo
Narrativa romanzo
Collana La memoria
Pagg. 168
ISBN 9788838931956
Prezzo € 12,00


I giorni prima dell’uragano


Questo romanzo storico esce proprio nell’anno in cui si celebra il primo centenario dello scoppio della Grande Guerra, un conflitto che, al di là di quello che costò in milioni di vite umane, segnò una svolta epocale, con la fine dell’Europa quale entità capace di dominare la scena planetaria, con la caduta di tante monarchie, con l’avvento di un regime comunista e negli anni immediatamente successivi alla sua fine con il sorgere in Italia del fascismo e in Germania del nazismo che portarono al secondo grande scontro mondiale.
Andrea Molesini ha colto questa occasione per imbastire un’opera strutturata come una tragedia greca (un prologo, tre atti e un epilogo), ambientando la trama nella sua Venezia, all’epoca meta di soggiorno della più facoltosa nobiltà e borghesia europea. Quella descritta non è una città da cartolina, anzi è limitata al Lido e all’isola di San Servolo, l’isola dei matti, sede appunto del manicomio. L’autore, tuttavia, non si limita solo a proporre una vicenda su quelli che  furono gli ultimi giorni di pace, ma va ben oltre, scende nei meandri dell’animo umano per evidenziare quanto ineluttabili appaiano le grandi e piccole scelte nel destino di ognuno e tanto qui a maggior ragione si comprende come siamo solo dei predestinati. Non è un caso quindi se l’opera è introdotta da una frase di Rainer Maria Rilke (Il futuro entra in noi, e si trasforma in noi, molto prima di accadere); questa epigrafe, scritta dal grande poeta di lingua tedesca proprio in quel periodo, significa in buona sostanza che ogni essere umano sa, sia pure inconsciamente, quel che è prima che lo diventi. E’ una premessa drammatica e ben calza allo svolgimento di questo bellissimo romanzo.
Se fino a ora ho esposto l’opera nelle sue linee generali, ritengo opportuno adesso dare qualche notizia in più, affinché il lettore si faccia un’idea più precisa. 
È il luglio del 1914, il 28 giugno Gavrilo Princip a colpi di pistola aveva spento a Sarajevo le vite dell’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria, e di sua moglie Sofia, lo stato febbrile volto a una guerra, già in atto da tempo, ha colto nell’attentato ai reali l’occasione propizia per concretizzarsi. Schermaglie diplomatiche, più che altro dimostrative, animano quel mese di luglio, ma ciò che già da tempo era stato deciso trova finalmente il suo sbocco in una guerra che è il disperato tentativo per monarchie ormai obsolete di contrastare la loro naturale fine, ed é così che queste (impero russo, impero austro-ungarico, impero turco-ottomano e l’ancor giovane, ma troppo tardi instaurato impero germanico) buttano sul tavolo da gioco della storia le loro consunte carte, così che il 28 di luglio scoppia la prima guerra mondiale. A Venezia, all’Hotel Excelsior, il gran mondo riempie di frivoli cicalecci i saloni, esponenti di un’epoca, chiamata Belle Epoque, in cui tutto sembra eternamente spensierato, in cui, dietro un paravento di eleganza e nobiltà, si cela un profondo malessere, una povertà di valori destinata, prima o poi, a esplodere.   
Molesini avrebbe potuto parlarci di questi sconosciuti per spiegarci quei giorni, ma anziché scrivere un romanzo corale, come i suoi due precedenti, preferisce imperniare la sua trama su due soli protagonisti, il commendator Spada, proprietario dell’Hotel e una sua avvenente cliente, la marchesa Margarete von Hayek. L’uomo non è insensibile al fascino della nobile dama, ma è un pragmatico e comprende che per lui ella può rappresentare solo un esaltazione dei sensi e non un vero e proprio amore, e di ciò ne trae profitto, accompagnandosi con lei senza patemi, ma con impeti carnali. Lei è una femmina fatale, pericolosa quindi, e depositaria di un segreto che, una volta svelato, ce la mostra in un’altra luce. In questo contesto intimo la mostruosa macchina volta all’inizio di una guerra acquista sempre più velocità, fino a quando il 28 luglio l’Austria dichiara guerra alla Serbia, che ha rifiutato un ultimatum impossibile da accettare secondo il buon senso.
Il discorso con cui il commendator Spada comunica ai suoi ospiti, seduti a tavola per la cena, l’inizio delle ostilità è per me la parte più bella del libro e già da sola giustifica la lettura dell’opera. Non c’è retorica nelle parole dell’albergatore veneziano, ma tanto giudizio e soprattutto umanità. Sono pagine che si leggono con vivo piacere, provando un’indicibile emozione. Quella dichiarazione di guerra risuona nel silenzio generale del salone come una condanna per gli appartenenti a un mondo che da lì a pochissimo sparirà e della Belle Epoque, in cui tutto sembrava possibile purché lo si volesse, non resterà che un vago ricordo e i dipinti del can can di Toulouse-Lautrec.
Nel romanzo di Molesini questo passaggio, questa fine di un’era è ben descritta, benché sembri toccare solo le anonime comparse del suo libro. Per i due protagonisti e soprattutto per la marchesa la convinzione che sia stato spazzato via un modo di vivere la vita in nuce  già esiste in loro, nella loro storia d’amore senza speranza, nella estrema sensualità di lei, secondo un copione già noto, ma con una sua peculiarità: lei tende ad autodistruggersi, magari coinvolgendo altri, come un presagio, lo stesso che sotto forma di incubo accompagna le notti del commendatore, con quella bestia che è in noi ed è pronta ad azzannarci. Guai a contrastarla, perché in fondo la guerra è l’emblema di quella bestialità che ci è propria e solo con la consapevolezza che è tipica dell’artista che si limita a osservarla e a descriverla è possibile non essere dalla stessa sopraffatti.
Romanzo che mette allo scoperto la più recondita natura dell’uomo, Presagio è scritto con signorilità, senza mai trascendere e anzi misurando le parole una per una (stupendi al riguardo i duelli verbali fra i due protagonisti), è volto a un messaggio universale, a una ricerca della verità, a quel Wahrheit con cui inizia il libro, che si chiude con un finale enigmatico, ma segnato da una profonda pietà. 
Se l’impianto è teatrale, in un contesto di crescente tensione in cui par già di udire i tuoni delle cannonate, Molesini ha il pregio indiscutibile di accompagnare a una tragedia una vena poetica di cui sia i due protagonisti che l’intero libro beneficiano ampiamente, e questo ha effetto anche sul lettore che giunto all’ultima pagina ricava netta la sensazione di aver letto qualche cosa di molto diverso dal solito, di avere per le mani un’opera di grande valore letterario, una di quelle che, benché riferita a un’epoca, è senza tempo, stupenda oggi come lo sarà domani.
    
Andrea Molesini ha pubblicato con Sellerio Non tutti i bastardi sono di Vienna, che nel 2011 ha vinto, tra gli altri, il Premio Campiello e il Premio  Comisso, tradotto in inglese, francese, tedesco, spagnolo e molte altre lingue, La primavera del lupo (2013) e Presagio (2014).

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Recensione di Renzo Montagnoli



MondoBlog del 25 giugno 2014

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mercoledì 18 giugno 2014

Il resto è solo silenzio, di Renzo Montagnoli

                                                                  Foto da web



Il resto è solo silenzio
 di   Renzo Montagnoli


Mute distese di verde sferzate dal vento
percorse da lunghe linee bianche
lontano è il rumore del mare
un rombo aspro, quasi rauco
che si spezza contro l’alta costa.
Sembrano soldati impettiti
fermi in eterno sull’attenti
cippi marmorei, un nome e due date
tutto quel che resta di un uomo.
Scende una pioggia fine
da questo cielo spesso imbronciato
lacrime di madri e spose lontane
mesti ricordi che il tempo smorza
fra echi di nuove battaglie
pianti rinnovati
altre distese crocefisse a sogni
che mai prenderanno il volo.
Soffia forte il vento
brontola il mare
tutto il resto è solo silenzio.        

Ai caduti di tutte le guerre


La colonna sonora credo che ben si adatti a questi versi:




Il canto delle manére, di Mauro Corona



Il canto delle manére
di Mauro Corona
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa romanzo
Pagg. 411
ISBN 9788804590712
Prezzo € 11,00



Quando tornano i ricordi dell’infanzia il cerchio si chiude



*Le foglie dei faggi na volta cadute si arriccia fino a toccarsi i bordi, ma prima vien giù leggere, con un tic tic, come gocce sulle frasche.
Invece le foglie dei caprini, suturne e schive come il padre, cadendo non fa quasi suono, solo na specie di sussurro come a dire: “Finalmente!”.*

*Ma adesso che tornava al paese dopo tanto tempo, Paula francesxca gli veniva incontro come na figura lontana che avanza pian piano, si vicina e prende forma. Lui la vedeva come trentatré anni prima, bella e senza padroni, libera come l’acqua del Vajont che corre e nissuno la ferma. Per quello gli piaceva, per quello l’aveva persa.*



Non credo sia umanamente possibile descrivere quello che ho avvertito quando sono arrivato all’ultima riga di questo romanzo. Ci provo, comunque: una specie di emozione, una sorta di urlo interiore che saliva dallo stomaco e che poi si spegneva sulle labbra. Non è proprio così, ma si avvicina a questa sensazione per nulla sgradevole e anzi assai appagante.
Per quanto non legga in modo sistematico le opere di Mauro Corona e anzi la mia conoscenza letteraria di questo autore sia per ora limitata a I fantasmi di pietra, a Il volo della martora e a Storia di neve, oltre a questo Il canto delle manére, mi accorgo di trovarmi di fronte a un narratore di eccelse qualità, che forse non potrà essere considerato come uno di quei geni che lasciano un segno indelebile in campo letterario, ma che comunque è capace di portare il lettore a una vera e propria catarsi, e ciò non è poco, è anzi molto, perché non sono molti quelli dotati di tale qualità. Fino a oggi ero convinto che il suo capolavoro, basandomi ovviamente su quelli che ho letto, fosse I fantasmi di pietra, ma devo ricredermi, perché Il canto delle manére, che descrive la vita di Santo Corona della Val Martin, riassume in sé tanti e notevoli pregi. L’esistenza tribolata di questo boscaiolo e di tutti i boscaioli assume i toni di un’epopea, in quattrocento pagine che si divorano e che si vorrebbe che non finissero mai. La vicenda è ricca di colpi di scena, ma ciò che più conta è la caratterizzazione esemplare del protagonista e dei comprimari, ognuno ben definito nella sua personalità fatta di pregi e di debolezze. Sono uomini scolpiti nel legno, in quello stesso legno che faticando e rischiando tagliano nei boschi, sono uomini che amano, gioiscono, piangono, sono preda dell’odio e vittime dell’amore, sono uomini veri che è sempre più difficile incontrare. E su tutto la natura, a volte dolce, altre feroce, come sempre, una natura che Corona, più che descrivere, dipinge; in essa figura la coralità dei personaggi, perché se è vero che si parla quasi sempre di Santo Corona, cosa sarebbe lui se accanto non avesse uomini come Augusto Peron, Franz Keil, o donne come Giovanna e Paula, tanto per citarne solo alcuni?  Infatti i caratteri dei comprimari servono bene a evidenziare quello del protagonista, un uomo teso a raggiungere una posizione di privilegio, a far soldi, tanti soldi, sacrificando a questo effimero scopo perfino la sua esistenza e accorgendosi da vecchio di non aver vissuto.
Le scene del bosco d’inverno o in autunno, il lavoro delle squadre di boscaioli, le bevute all’osteria, perfino le unioni carnali senza un vero amore che contraddistinguono Santo Corona sono una serie di quadri dipinti con le parole. In alcuni casi, lasciando libero sfogo alla mia fantasia, mi sono sentito perfino di fare un paragone fra certe immagini così stupendamente descritte e le pellicole cinesi del grande regista Zhang Ymou, in primis La foresta dei pugnali volanti, ma anche Lanterne rosse, Hero e La città proibita. Infatti, ho riscontrato la stessa capacità di ricreare un’atmosfera che si potrebbe senz’altro definire magica.
Mi sembra superfluo aggiungere che la lettura di Il canto delle manére è più che raccomandata.        


Mauro Corona è nato a Erto (Pordenone) nel 1950.
È autore di Il volo della martora, Le voci del bosco, Finché il cuculo canta, Gocce di resina, La montagna, Nel legno e nella pietra, Aspro e dolce, L'ombra del bastone, Vajont: quelli del dopo, I fantasmi di pietra, Cani, camosci, cuculi (e un corvo),Storia di Neve, Il canto delle manére, La fine del mondo storto(premio Bancarella 2011), La ballata della donna ertana, Come sasso nella corrente, Venti racconti allegri e uno triste, Guida poco che devi bere: manuale a uso dei giovani per imparare a bere, delle raccolte di fiabe Storie del bosco antico e Torneranno le quattro stagioni, tutti editi da Mondadori, e di La casa dei sette ponti (Feltrinelli 2012) e Confessioni ultime (Chiarelettere 2013).


Recensione di Renzo Montagnoli



MondoBlog del 18 giugno 2014

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domenica 8 giugno 2014

Utopia, di Carla De Angelis

                                                                    Foto da web


Utopia
di Carla De Angelis


Scusa Signore se non ho ricordo dei giorni vissuti
un pensiero lungo in cerca di incanto
è rimasto impigliato nei perc
tuttavia riprendo la strada
senza sprecare una mollica di pane
un sorso di acqua un passo una parola
senza consumare il mistero mi fermo
dalla finestra vedo passare il gregge
il cane bianco lo protegge lo avvia alla collina
L’incanto si trova nei fili d’erba
nel silenzio del pastore nel sole
nessuna pecora si deve smarrire
nessun uomo deve più morire

(pensando a tutte le guerre)


Da I giorni e le strade (Fara Editore, 2014)


La musica mi pare in tema: