mercoledì 16 aprile 2014

Il sogno di Felicita, di Renzo Montagnoli




Il sogno di Felicita
di Renzo Montagnoli


Quando nacque, il padre, uomo d’armi, ufficiale dell’allora Regio Esercito e appena promosso al grado superiore, non trovò di meglio di dichiarare all’addetto dell’anagrafe che, essendo particolarmente lieto dell’evento, avrebbe chiamato la piccola Felicità.
Forse l’impiegato non conosceva bene gli accenti, oppure comprese male, o meglio ancora si scordò quel baffino sulla a e così finì per chiamarsi Felicita.
In ogni caso il nome fu nettamente in contrasto con il destino di questo essere umano, votato dalle circostanze a uno stato di perenne infelicità.
L’ascendente dei genitori, in particolare del padre, la costrinse a un’educazione rigida, in cui nulla era lasciato al caso ed erano perfino scelte le eventuali amichette compagne di giochi.
Se poi si considerano i frequenti trasferimenti legati alla carriera del genitore, fu inevitabile che le conoscenze di Felicita fossero solo temporanee, cosicché al raggiungimento della maggiore età il concetto di un’autentica amicizia non era ancora innato nella fanciulla. 
Al compimento dei 18 anni il padre era già generale di divisione, una posizione di prestigio che imponeva un matrimonio altolocato per quell’unica figlia.
La giovinetta non era né bella né brutta, altezza media, capelli neri, occhi scuri vivacissimi e che sembravano alla perenne ricerca di qualche cosa, forse di quella libertà che tanto le mancava.
Come era d’uso fece il suo ingresso in società al ballo delle debuttanti, una serata di galateo schizofrenico in cui dovette mostrare l’educazione ricevuta e poiché questa era stata rigida e inflessibile finì con il comportarsi come un soldato prussiano, con il risultato che scoraggiò tutti i cavalieri, tutti meno uno.
Il tenente Bruno Arvati, bello, alto, slanciato era la preda più ambita della serata, ma questi non aveva occhi che per Felicita e finì con il danzare con lei fino alla mezzanotte. Fu  un colpo di fulmine e lei se ne innamorò subito, desiderando ardentemente di essere ricambiata.
- Signorina Felicita, lei balla divinamente.
Arrossì, abbassò gli occhi, mentre il petto le scoppiava.
- Se…se è d’accordo, chiederò al suo signor padre il permesso di incontrarmi ancora con lei.
La risposta fu un sì sommesso, come si conveniva a una fanciulla di buona famiglia.
Il generale non risultò per nulla d’accordo, ben conoscendo il carattere del tenente, gran donnaiolo e impenitente giocatore d’azzardo indebitato fino al collo, uomo più di apparenza che di sostanza.
Felicita pianse, si disperò, supplicò il padre, ma fu tutto vano e conobbe il primo rifiuto, il primo di tanti che l’accompagnarono nella sua breve vita.
Dapprima furono frequenti e le scuse del genitore le più varie (non è degno di te, non ha una posizione pari alla nostra, è uno scapestrato, andrebbe bene, ma non ha un soldo), poi cominciarono a diradarsi mano a mano che Felicita invecchiava. Lei finì con l’incupirsi e quando arrivò a compiere trent’anni sembrava già una donna matura, spenta e senza futuro.
La scomparsa prima del padre, poi quella della madre, anziché farle ritrovare la libertà che aveva persa, sembrarono rinchiuderla ancora di più in una vita di steccati, fra pareti senza finestre.
Così diceva all’unica amica: - Sono vecchia, il mio tempo ormai è passato.
E quella rispondeva: - Non è vero, sei ancora giovane, puoi ancora trovare l’amore.
Felicita si schermiva più per convenienza che per una nascosta speranza, ben sapendo come un cuore inaridito non possa più offrire nulla.
Così i giorni passavano, monotoni, grigi, senza primavere, solo lunghi desolanti autunni.
Fu l’anno in cui ne compì trentuno che si accorse di quello strano malessere, di quella tosse stizzosa che andava crescendo e che ogni tanto provocava sbocchi di sangue.
Andò dal medico, la visitò e fu ricoverata immediatamente all’ospedale, con un verdetto che all’epoca (fra le due guerre) era una sentenza senza appello: tubercolosi.
Lì la curarono un po’, ma poi le consigliarono vivamente di cambiare aria, di andare dove questa era più sana e leggera e così si trasferì in un paesino del trentino, un borgo incantevole fra le Dolomiti.
La notizia dell’incurabilità della malattia non l’aveva di fatto sconvolta, tanto ormai da tempo era morta dentro. Fu quindi un ripetersi della solita vita anche nella nuova località, quasi sempre chiusa nella camera della pensione che l’ospitava, con rarissime uscite solo per andare in farmacia.
Durante una di queste, mentre chiedeva un prodotto vitaminico, chissà per quale segreto meccanismo  le parve all’improvviso che l’uomo dall’altra parte del banco assomigliasse al tenente Arvati.
- Ecco signora, ecco il suo prodotto.
- Grazie, dottore.
E fece per uscire, ma poi sulla porta si fermò e si voltò a fissare l’uomo.
- Ha dimenticato qualcosa?
- No, è che lei assomiglia a una persona che ho conosciuto tanto tempo fa.
- Spero sia stata una conoscenza piacevole.
- Sì. – e corse fuori.
Da allora le visite in farmacia si intensificarono. Con tatto aveva chiesto informazioni e aveva così saputo che l’uomo non era un né fratello, né un parente dell’Arvati, ma anche che era considerato una brava persona, un po’ sfortunata, poiché l’anno prima gli era morta la moglie, lasciandolo praticamente solo, non avendo prole.
- Ecco anche oggi la nostra signora. In cosa posso servirla?
- Avrei bisogno di cachet contro l’emicrania.
- Spero che questi gliela facciano passare.
Ma l’emicrania diventò ricorrente e i cachet non bastavano mai, giacché Felicita, come usciva dalla farmacia, li gettava nel torrente che scorreva nei pressi.
I contatti più frequenti crearono una situazione di imbarazzante complicità, perché anche l’uomo cominciò a desiderare la visita di quella cliente.
Pur mantenendo le distanze, dalla semplice ordinazione si passò a discorsi sul tempo, poi sulle proprie origini, sulle scuole frequentate, insomma si venne a creare una relazione di conoscenza.
E se mentre Felicita, una volta uscita dal locale, provava il desiderio di rientrarvi immediatamente, lui invece vedendola andarsene avvertiva un senso di vuoto, come se all’improvviso le mancasse.
Quel che non fecero le parole lo realizzarono gli sguardi, grazie ai quali entrambi compresero l’interesse dell’uno per l’altro.
Ormai i tempi erano maturi per una dichiarazione, per rompere quegli indugi che usi e convenienze riuscivano a frenare.
L’occasione sarebbe stata l’invito a visitare con lui una cascata nelle vicinanze del villaggio.
- Sembra che domani sia bello e dato che è domenica la farmacia è chiusa. Così ho deciso di muovermi un po’, di fare quattro passi. A non più di due chilometri dal villaggio c’è un posto stupendo, con una cascatella da cui sembrano uscire le ninfe.
- Deve essere bello, dottore.
- Io lo considero incantevole. Non c’è nessuno di quelli che stanno qui che non l’abbia visto almeno una volta…
Felicita restò zitta, ma i suoi occhi scuri brillarono all’improvviso.
- Perché non viene anche lei? E’ solo una passeggiata; le farebbe bene e…io sono un galantuomo, una persona seria. Per me sarà un onore accompagnarla.
Felicita si volse e fece per uscire, ma poi quando fu sulla porta girò il capo e disse: - A che ora?
- Alle 10. Passerò io dalla pensione.
- D’accordo. – e uscì raggiante.
Fu un giorno speciale per lei, tutta tesa a immaginare l’indomani. Per la prima volta si sentì leggera, avvertì che le membra si scioglievano, perdevano quella composta rigidità da soldato prussiano. Il mondo finalmente si apriva, il cielo così cupo lasciava intravvedere i raggi del sole.
Dimenticò tutto, il suo passato, la vita monotona e inutile,
iniziò anche a fantasticare, a immaginare  le mani di lui sulle sue, avvertendo un leggero brivido che, anziché turbarla, la fece sorridere.
Forse non tutto era perduto, si disse, forse anche lei avrebbe potuto conoscere che cos’era l’amore.
I sogni hanno però vita breve e quando già era raggiante si ricordò del motivo per cui si trovava lì e riemerse, prima sommessamente, poi in modo prepotente, il pensiero della malattia, di quella morte che sembrava vicina.
Arrivò a sera angosciata e dopo la cena si coricò subito, cercando di non pensare, sperando di dormire.
E fra tanti patemi d’animo, improvvisi ripensamenti, speranze che nascevano e subito finivano, il sonno al fine la colse.
- Felicita, Felicita!
- Chi è che mi chiama? Non vedo nulla, è tutto buio, anzi no là in fondo c’è un chiarore.
- Felicita, Felicita, vieni da me!
- Dove sei e chi sei?
Felicita procedeva lungo una specie di galleria e passo dopo passo il chiarore si avvicinava e faceva scorgere l’immagine per ora indistinta di una persona.
- Felicita, vieni con me, dove più non si soffre.
I contorni della figura prendevano corpo ed era evidente che si trattava di un uomo.
- Se lì non si soffre più, vuol dire che sono già morta.
- Che cos’è la morte, se non la continuazione di se stessi nell’eternità.
- Ma chi sei?
- Non mi riconosci?
- No, non ti vedo ancora bene.
- Sono il tuo angelo custode.
Felicita osservò meglio e vide le ali che sovrastavano le spalle, poi corse al viso, in tutto e per tutto uguale a quello del farmacista.
- L’appuntamento è domani, non oggi.
- Che cosa conta il tempo di fronte all’eternità: oggi, ieri, domani non sono nulla per ritrovare te stessa, per mettere quell’accento sulla a che da troppo tempo ti manca. La felicità è anche nel ricordo di un sentimento, tu che di ricordi ne hai avuti così pochi.
Si accorse che stava correndo, sentì la fatica dei passi ripetuti sempre più velocemente, avvertì l’affanno della respirazione. Fu allora che si risvegliò tossendo e chiazzando di sangue la vestaglia da notte.
Prese fiato, ripensò al sogno, considerò che la sua vita ormai era prossima al termine, ma che prima aveva avuto la grazia di un desiderio ricambiato, e poiché ormai voleva troppo bene a un uomo che aveva già sofferto per la perdita della moglie decise che il giorno dopo avrebbe preso il torpedone delle 9 e sarebbe tornata a casa.
Così fece e il ricordo di lui l’accompagnò fino alla fine.
         


5 commenti:

  1. romantico e significativo, e come sempre ben scritto.
    cari saluti
    cri

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  2. E' un racconto stupendo!

    Agnese Addari

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  3. Mamma mia Renzo, mi fai venire il groppo!! Quasi una fiaba, ma ben piantata nella realtà.
    BUONA PASQUA!!
    Giovanna

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  4. Il racconto di una vita segnata dalla malinconia e dalla rassegnazione a un destino già scritto fin dall'infanzia. Eppure, anche la protagonista coltiva un sogno, che le impedirà nonostante tutto di "spegnersi", pur essendo condannata a una morte prematura.
    Un racconto che lascia nel lettore un pizzico di quella stessa infelicità che ha accompagnato l'intera esistenza di una giovane donna.
    Bello.
    Piera

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  5. E' un bel racconto lascia un so ché di malinconia, ma anche la certezza che i sogni sono la nostra salvezza. Carla De Angelis

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