Il
giorno del giudizio –
Salvatore Satta - Adelphi – Pagg. 292 – ISBN9788845903816 - €
22,00
Pubblicato
postumo nel 1977 e scritto da un giurista che per un’intera
esistenza coltivò gli studi letterari, l’opera può ascriversi alla condizione giuridica
di lascito testamentario non come atto privato ma pubblico.
La pubblicazione ha reso nota la grandezza di uno
scrittore che in vita fu restio, accantonato il tentativo letterario con “La
veranda”, a darsi un posto nel mondo delle lettere. Lo stesso Satta,
celato sotto le spoglie del narratore, scrive e si augura che un
momento di lucidità, prima della morte gli impedisca di mantenere vive e
pubblicabile sue parole facendolo così assurgere a certa immortalità.
E
invece il romanzo esce ed esce postumo e ci dona il valore di un’esistenza
persa dentro altre 7000, quali gli abitanti di Nuoro, agli inizi del Novecento
qui rappresentati.
La
voce narrante è lui, un giudice in pensione: si cela tra una miriade di
personaggi che fa affiorare dalla sua memoria di vita per dar vita ad un
romanzo corale dove unico protagonista è il giudice - metafora della solitudine
umana - e unico oggetto il giudizio. Il narratore alterna la sua
visone esterna all’ottica interna e presentandoci Don Sebastiano,
notaio, e la sua famiglia, una moglie e sette figli, ci cala in un mondo che
dal particolare assurge all’universale. E mentre il narratore cerca “di
fermare onde di ricordi che si accavallano in un assurdo disordine,
come se l’esistenza si fosse svolta in un solo istante”, si
conosce Nuoro, la sua storia, le sue famiglie, l’importanza della
vigna, l’atto della panificazione, il “fiat lux” dell’avvento
dell’illuminazione pubblica, il progredire del tempo, dei tempi, degli uomini,
dei costumi. E la terra inghiotte gli uomini e le discendenze si succedono e le
storie individuali si disperdono in una storia universale e vita e morte si
confondono.
Il
narratore allora, fatti riaffiorare uomini e ricordi, imborghesito e al
limitare della sua esistenza, dal cimitero, ove come in sogno si è recato
speranzoso di non essere veduto assurge a “ridicolo dio” e chiama a sé i morti
come nel “giorno del giudizio”. Scrivendone la storia si sente non tanto
demiurgo quanto giudice e prosegue nel far affiorare uomini e ricordi: i maestri,
la scuola, l’episcopio, i monsignori... Diventa quindi giudice di se stesso,
gli altri lasciandoli all’oblio della storia e della vita, quando il
ricordo soggiunge pungente e diventa anche la richiesta di perdono di un figlio
che un giorno rifiutò l’atto d’amore della mamma sì da crucciarsene tutta la
vita.
L’ottica
straniante attinta dal modulo verista completa l’effetto di smarrimento
lasciato al lettore che, scoprendo un piccolo fazzoletto di terra abitata da
qualche anima, ritrova la peculiarità di una singola esistenza liquefatta nella
moltitudine delle altre.
Un
libro sulla morte, un libro sulla vita, una riflessione amara sulla condizione
umana che a tratti mi ha ricordato Saramago, un libro sulla solitudine
della condizione esistenziale, un libro sulla ineluttabilità del destino che
forse, alla fine , assolve Dio.
Siti
Bellissimo leggere questa recensione ad un libro che amo moltissimo. L'autore è stato ed è un grande scrittore, rimane il dispiacere che non abbia avuto in vita l'attenzione che invece meritava ampiamente. Molto stimato come giurista non lo è stato invece come narratore, ritrattista, mi verrebbe da dire, di una società particolare, complessa e variegata.
RispondiEliminaGrazie, Renzo.
Piera