La pecora
di Luigi Panzardi
La strada a T: via san Domenico. In salita. Corta. Entrandovi da piazza San Giovanni si ha subito la vista dell’edificio a
due piani, macilento e antico di almeno sessanta anni. Visto dal basso,
l’occhio scorge dapprima il parapetto smerlato che circonda il terrazzo e poi,
intristito, i due balconi con persiane d’un verde scolorito ed ulcerato come un
lebbroso. Alla persiana di destra, quattro stecche sono appiccicate con nastro
adesivo marrone, a quella di sinistra ne mancano alcune e il buco è nero,
triste e povero. Le inferriate sono arrugginite e tra i ferri non vi è nessun
vaso e fiore a far capolino.
Al primo piano spiccano invece il verde fresco degli infissi e i
vasi pensili tracimanti fiori. Fili bianchi, luccicanti, sono
tesi da una estremità all’altra dei ferri. Appeso ad essi
un lenzuolo bianco, come il cielo coperto da un velo di nuvole, oggi svolazza
sopra il portone che è grande, di legno marrone, chiuso. Tranne che per una
porticina a cupola, intagliata nella robusta superficie legnosa, sempre aperta
per via della serratura rotta, e attraverso la quale spesso entrano persone che
lasciano l’urina negli angoli, da dove s’alza un fetido puzzo.
All’interno del portone, nella penombra, sui primi quattro
gradini, quelli che portano al pianerottolo da dove parte la rampa che sale ai
piani, sta Lucia. Nella posizione della pecora. Poggia i piedi sul pavimento,
il palmo delle mani sul quarto gradino. A vederla così si ha la certezza che
l’hanno piegata per avere un più comodo accesso al suo
corpo. Ed è ancora in quella posizione, come pecora che brucata l’erba sta
ferma a meditare sul ciglio di un burrone.
L’aspettavano nel portone, al buio. L’hanno posseduta in quattro.
In tutti i modi.
Lucia ora è sola. Con i suoi sedici anni, non più vergini. Ha
ancora la fronte poggiata sul dorso della mano, di cui sente il profumo
lasciato dalla saponetta comprata al mercato rionale. Sente il dolore vivido
attraversare il suo corpo. Sente le cadenze dei loro canili guaiti. Come se
fossero ancora su di lei.
Durante quell’orgia ha sentito il
cigolio di un uscio che si apriva, per un attimo ha sperato in un aiuto, ma lo
stesso cigolio si è ripetuto dietro il silenzio, segno del richiudersi
spaventato della porta.
“Aiuto!” Ora la riconosce: è la sua voce che le ritorna
all’orecchio, come dal fondo di un dirupo, lacerata dalle rocce, disperata.
Sente sé stessa sospesa sul dirupo, priva di risorse. Percepisce il corpo come
trasfigurato in quello di un animale, che caracolla nell’imminenza di precipitare
nel vuoto.
Sopra di sé ancora, il cigolio di un uscio le ricorda la realtà.
Sente lo sfregare incerto di ciabatte sul pavimento, il tonfo dei passi che
scendono sui gradini di pietra. La sente sedersi, ne percepisce l’odore buono e
familiare, il calore del corpo.
E’ la nonna Maria che le prende con delicatezza il capo e se lo
poggia sulle ginocchia magre e vecchie. Le accarezza i capelli biondi,
vellutati.
I genitori di Lucia sono divisi e lontani. La madre si guadagna da
vivere a Calolziocorte, come cameriera in un albergo.
Ogni mese le manda un po’ di denaro. Il padre a Copenaghen, operaio, spedisce
mensilmente alla nonna una somma più consistente. Nulla di più. Niente abbracci
e baci, né carezze la sera prima di coricarsi, né
consigli per la giornata di domani.
- Ho chiamato la polizia – dice la vecchia lisciandole i capelli
neri.- Li ho visti, li ho riconosciuti. Li possiamo denunziare, se vuoi.
Lucia finalmente solleva il capo e fissa negli occhi la nonna
debole di ottantaquattro anni vissuti in miseria e fame. Vede in quegli occhi
grigi paura e rassegnata stanchezza .
- Temo per te, lo sai. Qua così si vive. E’ il più forte che detta
legge e gli altri a testa in giù come pecore. Zitti. E noi siamo sole.
La sente parlare, a singhiozzi. E pensa, Lucia, alle sue amiche
cresciute con lei in quel borgo, seviziate come lei per tutti i santi giorni,
fin dalla nascita, tormentate dai bisogni sempre inappagati, dai desideri
sempre pencolanti, come frutti posti troppo in alto per poter essere raccolti,
sempre sulla strada per le case troppo piccole a contenere il loro entusiasmo
fanciullesco, alle gare in bicicletta tra le macchine parcheggiate in divieto
di sosta e tra i passanti minacciosi sui marciapiedi. Questo pensa Lucia,
quando un rumore affrettato e pesante di passi alle
sue spalle la distraggono. Gira il capo e vede due uomini in divisa che la
guardano, ostili, le sembrano. Allora finalmente si ricorda del suo corpo di
pecora, a fatica si alza e poi si siede al fianco della nonna.
- Allora? Che è successo qua? – chiede bruscamente un poliziotto.
Lucia lo guarda senza paura. Un’idea all’improvviso le si è ficcata nel cervello. Suggerita anche da quelle
divise. Bisogna seguire la corrente: rispettare
l’omertà, le leggi imposte dalla malavita del borgo, di quel mondo vermicolante, per ricavarne vantaggi. Riflette rapidamente,
quasi avesse le vertigini: “Io sto zitta: loro mi pagheranno il silenzio. In
denaro e in rispetto.”
- Qua non è successo proprio niente – risponde al poliziotto, con
un beffardo sorriso.
- Chi ha telefonato allora?
- Mia nonna. Me l’ha detto lei. Poverina, vede poco e sente male.
Deve aver scambiato i sorrisi per pianti.
- Se volete denunciare qualcuno vi portiamo al commissariato –
dice l’altro poliziotto.
- No, non dobbiamo denunziare niente. Chi dobbiamo accusare se
nessuno ci ha fatto del male?- risponde in fretta Lucia, ormai decisissima a
fingere, per sempre.
- Ha ragione mia nipote. Mi sono sbagliata. L’ho vista con dei
ragazzi, non so perché, mi sono spaventata. Alla mia età, vivere da sola, la
debolezza… La paura si attacca addosso, come un’altra pelle.
- Va bene, diciamo che l’allarme è nato da un equivoco – conclude
il primo poliziotto, poco convinto, ma impotente per
quelle dichiarazioni così definitive. – Possiamo andare, allora?
- Si, qua è tutto a posto. Scusateci tanto per il disturbo – dice
Lucia fissando gli occhi nel vuoto della penombra.
- Per carità, è dovere!
I poliziotti, con calma pensierosa, esitano un attimo sulla soglia
del portone, poi spariscono.
Lucia si volta a guardare la nonna che la sta osservando.
- Figlia mia – dice la vecchia abbracciandola, - perché non hai
detto quello che ti è successo? Ti ho vista così decisa da non sentirmela di
contraddirti. Ma sei sicura d’aver fatto bene? Perché non vuoi denunziare quei
delinquenti?
- Nonna, siamo io e te! sole! I miei genitori lontani, con i loro
problemi, io minorenne, tu anziana e debole: dove vuoi trovare la forza di far
la guerra a questo ambiente? Questi si coalizzerebbero, direbbero tutti assieme
che siamo due matte visionarie. E poi ci minacceranno. Io sarò additata come la
ragazza facile, goduta da tanti, una disgraziata che getta fango su bravi
ragazzi. Al contrario, il mio silenzio costringerà quei quattro farabutti a non
vantarsi con gli amici della loro porcata. Ricatterò i loro parenti. Vedrai che
saremo anche rispettate, perché in questo ambiente l’omertà è una virtù
preziosa che si ripaga con stima e denaro.
Lucia ora si scioglie dall’abbraccio della vecchia, che sembra più
tranquilla, le prende una mano e l’aiuta a salire al secondo
piano, dove abitano. Ad ogni gradino, conquistato con lenta fatica, la nonna Maria si congratula in cuor suo con la nipote. Pensa:
“E’ una ragazza intelligente, è furba, ha capito subito come si vive. Se avesse
accusati quei delinquenti! Quanti guai. Come sarebbe andata dal salumiere,
domani che si sentirà meglio, a chiedere l’aranciata e l’acqua minerale? Io
potrei vivere senza quelle povere bevande? Mi sono tanta abituata che guai a
mancarmi! Quell’uomo l’avrebbe cacciata dal negozio a
calci, anche a pagargliela la merce. E come sarebbe andata in merceria a
comprare le mutandine? Quella donnaccia della merciaia l’avrebbe fatta scappare
dal negozio con calunnie e parolacce. E che vocabolario tiene in bocca, quella
pazza!” A metà scala si ferma il passo e il pensiero della vecchia. E’ stanca e
affannata. Davanti, la porta del primo piano è inesorabilmente chiusa.
Tornatele regolare il respiro, riprende a salire e a pensare. “Lì pure abitano
persone furbe come Lucia. Il macellaio forse le avrebbe data la carne tenera,
l’unica che riesco a masticare con le gengive, ora che non ho più denti? Solo
il farmacista le avrebbe date le medicine, forse, e il prete un cero, pregando
per la nostra morte. Tutti sono in combutta. L’avrebbero scacciata la puttanella, quella che prima si fa sbattere e dopo accusa
ingenui ragazzi. E’ proprio vero, è una bimbetta molto furba la mia nipotina!
Magari anche i suoi genitori fossero stati altrettanto, ora non sarebbero
raminghi per il mondo, a chiedere l’elemosina.” I
gradini sono finiti, finalmente. La nonna si appoggia con tutte e due le mani:
la sinistra su Lucia, la destra sulla ringhiera
polverosa; con la bocca aperta cerca di acchiappare quanta più aria le è
possibile. Lucia la sente fredda quella mano sulla sua spalla, sente il duro
delle ossa. Guarda la porta sgretolata della sua abitazione. All’improvviso si
sente sperduta in una solitudine oscura. Il corpo della nonna le appare come
un’ombra ostile. Si sente tradita e sente d’aver tradito i suoi genitori. In
quello stato di immobilità, nella penombra delle scale, sente già le prime
unghiate dei rimorsi, coi quali intuisce che dovrà rassegnarsi a convivere e a
far tacere, lacerando ogni volta quell’immagine
pulita che s’era fatta di sé, costruita così chiara e dorata dalla sua giovane
fantasia. Stranamente le viene di vedersi pecora sotto un cielo bianco.
Entrano in casa; il cigolio accompagna il chiudersi della porta
alle loro spalle.
Un racconto "forte", in cui la tensione è chiaramente avvertibile.
RispondiEliminaMi è piaciuto molto.
Agnese Addari
È un racconto bello e terribile, scritto benissimo.
RispondiEliminaUn avvenimento che mi prende il cuore! La realtà della vita é qui espressa in modo cruciale, dove le ferite subite devono lasciare il posto alla reazione razionale, presa per intelligenza, invece che pretendere risarcimento morale e fisico. Segno di arretratezza civile alimentata dalla povertà assoluta del posto.
RispondiEliminaLorenzo
Il brutto è che questa è realtà.
RispondiEliminaScritta e vissuta.
Costringe a ripercorrere sentieri di memoria dolorosi.
Ma certe cose vanno raccontate. A costo di far male.
Racconto che chiude lo stomaco. Ben scritto.
RispondiEliminafranca
E' un encomiabile racconto di denuncia. Encomiabile perchè dalla parte dei deboli. Come dice Renzo, uno schiaffo al cuore e io aggiungerei anche alla giustizia. Purtroppo.
RispondiEliminaGiovanna
Complimenti all'autore.
RispondiEliminaQuesta storia è una tragedia crudelissima come purtroppo è la vita di tante povere donne violentate e a volte pure assassinate.
Buon 1 Maggio a tutti
♥ vany
Numerosi gli stati d'animo che si susseguono in questo racconto così amaro da far male.
RispondiEliminaNon c'è indulgenza da parte dell'autore, ma la descrizione oggettiva del percorso interiore della ragazza e dell'egoismo della nonna.
La disperazione della protagonista, prima, il suo amaro calcolo, poi. La legge della sopravvivenza sembra prevalere, eppure il rimorso, sia pure tardivo, fa capolino...
Tanta realtà in questo bel racconto.
Piera