sabato 28 aprile 2012

La pecora, di Luigi Panzardi

Un racconto che è uno schiaffo al cuore.

                   Foto da web

             La pecora

               di Luigi Panzardi





La strada a T: via san Domenico. In salita. Corta. Entrandovi da piazza San Giovanni si ha subito la vista dell’edificio a due piani, macilento e antico di almeno sessanta anni. Visto dal basso, l’occhio scorge dapprima il parapetto smerlato che circonda il terrazzo e poi, intristito, i due balconi con persiane d’un verde scolorito ed ulcerato come un lebbroso. Alla persiana di destra, quattro stecche sono appiccicate con nastro adesivo marrone, a quella di sinistra ne mancano alcune e il buco è nero, triste e povero. Le inferriate sono arrugginite e tra i ferri non vi è nessun vaso e fiore a far capolino.

Al primo piano spiccano invece il verde fresco degli infissi e i vasi pensili tracimanti fiori. Fili bianchi, luccicanti, sono tesi da una estremità all’altra dei ferri. Appeso ad essi un lenzuolo bianco, come il cielo coperto da un velo di nuvole, oggi svolazza sopra il portone che è grande, di legno marrone, chiuso. Tranne che per una porticina a cupola, intagliata nella robusta superficie legnosa, sempre aperta per via della serratura rotta, e attraverso la quale spesso entrano persone che lasciano l’urina negli angoli, da dove s’alza un fetido puzzo.

All’interno del portone, nella penombra, sui primi quattro gradini, quelli che portano al pianerottolo da dove parte la rampa che sale ai piani, sta Lucia. Nella posizione della pecora. Poggia i piedi sul pavimento, il palmo delle mani sul quarto gradino. A vederla così si ha la certezza che l’hanno piegata per avere un più comodo accesso al suo corpo. Ed è ancora in quella posizione, come pecora che brucata l’erba sta ferma a meditare sul ciglio di un burrone.

L’aspettavano nel portone, al buio. L’hanno posseduta in quattro. In tutti i modi.

Lucia ora è sola. Con i suoi sedici anni, non più vergini. Ha ancora la fronte poggiata sul dorso della mano, di cui sente il profumo lasciato dalla saponetta comprata al mercato rionale. Sente il dolore vivido attraversare il suo corpo. Sente le cadenze dei loro canili guaiti. Come se fossero ancora su di lei.

Durante quell’orgia ha sentito il cigolio di un uscio che si apriva, per un attimo ha sperato in un aiuto, ma lo stesso cigolio si è ripetuto dietro il silenzio, segno del richiudersi spaventato della porta.

“Aiuto!” Ora la riconosce: è la sua voce che le ritorna all’orecchio, come dal fondo di un dirupo, lacerata dalle rocce, disperata. Sente sé stessa sospesa sul dirupo, priva di risorse. Percepisce il corpo come trasfigurato in quello di un animale, che caracolla nell’imminenza di precipitare nel vuoto.

Sopra di sé ancora, il cigolio di un uscio le ricorda la realtà. Sente lo sfregare incerto di ciabatte sul pavimento, il tonfo dei passi che scendono sui gradini di pietra. La sente sedersi, ne percepisce l’odore buono e familiare, il calore del corpo.

E’ la nonna Maria che le prende con delicatezza il capo e se lo poggia sulle ginocchia magre e vecchie. Le accarezza i capelli biondi, vellutati.

I genitori di Lucia sono divisi e lontani. La madre si guadagna da vivere a Calolziocorte, come cameriera in un albergo. Ogni mese le manda un po’ di denaro. Il padre a Copenaghen, operaio, spedisce mensilmente alla nonna una somma più consistente. Nulla di più. Niente abbracci e baci, né carezze la sera prima di coricarsi, né consigli per la giornata di domani.

- Ho chiamato la polizia – dice la vecchia lisciandole i capelli neri.- Li ho visti, li ho riconosciuti. Li possiamo denunziare, se vuoi.

Lucia finalmente solleva il capo e fissa negli occhi la nonna debole di ottantaquattro anni vissuti in miseria e fame. Vede in quegli occhi grigi paura e rassegnata stanchezza .

- Temo per te, lo sai. Qua così si vive. E’ il più forte che detta legge e gli altri a testa in giù come pecore. Zitti. E noi siamo sole.

La sente parlare, a singhiozzi. E pensa, Lucia, alle sue amiche cresciute con lei in quel borgo, seviziate come lei per tutti i santi giorni, fin dalla nascita, tormentate dai bisogni sempre inappagati, dai desideri sempre pencolanti, come frutti posti troppo in alto per poter essere raccolti, sempre sulla strada per le case troppo piccole a contenere il loro entusiasmo fanciullesco, alle gare in bicicletta tra le macchine parcheggiate in divieto di sosta e tra i passanti minacciosi sui marciapiedi. Questo pensa Lucia, quando un rumore affrettato e pesante di passi alle sue spalle la distraggono. Gira il capo e vede due uomini in divisa che la guardano, ostili, le sembrano. Allora finalmente si ricorda del suo corpo di pecora, a fatica si alza e poi si siede al fianco della nonna.

- Allora? Che è successo qua? – chiede bruscamente un poliziotto.

Lucia lo guarda senza paura. Un’idea all’improvviso le si è ficcata nel cervello. Suggerita anche da quelle divise. Bisogna seguire la corrente: rispettare l’omertà, le leggi imposte dalla malavita del borgo, di quel mondo vermicolante, per ricavarne vantaggi. Riflette rapidamente, quasi avesse le vertigini: “Io sto zitta: loro mi pagheranno il silenzio. In denaro e in rispetto.”

- Qua non è successo proprio niente – risponde al poliziotto, con un beffardo sorriso.

- Chi ha telefonato allora?

- Mia nonna. Me l’ha detto lei. Poverina, vede poco e sente male. Deve aver scambiato i sorrisi per pianti.

- Se volete denunciare qualcuno vi portiamo al commissariato – dice l’altro poliziotto.

- No, non dobbiamo denunziare niente. Chi dobbiamo accusare se nessuno ci ha fatto del male?- risponde in fretta Lucia, ormai decisissima a fingere, per sempre.

- Ha ragione mia nipote. Mi sono sbagliata. L’ho vista con dei ragazzi, non so perché, mi sono spaventata. Alla mia età, vivere da sola, la debolezza… La paura si attacca addosso, come un’altra pelle.

- Va bene, diciamo che l’allarme è nato da un equivoco – conclude il primo poliziotto, poco convinto, ma impotente per quelle dichiarazioni così definitive. – Possiamo andare, allora?

- Si, qua è tutto a posto. Scusateci tanto per il disturbo – dice Lucia fissando gli occhi nel vuoto della penombra.

- Per carità, è dovere!

I poliziotti, con calma pensierosa, esitano un attimo sulla soglia del portone, poi spariscono.

Lucia si volta a guardare la nonna che la sta osservando.

- Figlia mia – dice la vecchia abbracciandola, - perché non hai detto quello che ti è successo? Ti ho vista così decisa da non sentirmela di contraddirti. Ma sei sicura d’aver fatto bene? Perché non vuoi denunziare quei delinquenti?

- Nonna, siamo io e te! sole! I miei genitori lontani, con i loro problemi, io minorenne, tu anziana e debole: dove vuoi trovare la forza di far la guerra a questo ambiente? Questi si coalizzerebbero, direbbero tutti assieme che siamo due matte visionarie. E poi ci minacceranno. Io sarò additata come la ragazza facile, goduta da tanti, una disgraziata che getta fango su bravi ragazzi. Al contrario, il mio silenzio costringerà quei quattro farabutti a non vantarsi con gli amici della loro porcata. Ricatterò i loro parenti. Vedrai che saremo anche rispettate, perché in questo ambiente l’omertà è una virtù preziosa che si ripaga con stima e denaro.

Lucia ora si scioglie dall’abbraccio della vecchia, che sembra più tranquilla, le prende una mano e l’aiuta a salire al secondo piano, dove abitano. Ad ogni gradino, conquistato con lenta fatica, la nonna Maria si congratula in cuor suo con la nipote. Pensa: “E’ una ragazza intelligente, è furba, ha capito subito come si vive. Se avesse accusati quei delinquenti! Quanti guai. Come sarebbe andata dal salumiere, domani che si sentirà meglio, a chiedere l’aranciata e l’acqua minerale? Io potrei vivere senza quelle povere bevande? Mi sono tanta abituata che guai a mancarmi! Quell’uomo l’avrebbe cacciata dal negozio a calci, anche a pagargliela la merce. E come sarebbe andata in merceria a comprare le mutandine? Quella donnaccia della merciaia l’avrebbe fatta scappare dal negozio con calunnie e parolacce. E che vocabolario tiene in bocca, quella pazza!” A metà scala si ferma il passo e il pensiero della vecchia. E’ stanca e affannata. Davanti, la porta del primo piano è inesorabilmente chiusa. Tornatele regolare il respiro, riprende a salire e a pensare. “Lì pure abitano persone furbe come Lucia. Il macellaio forse le avrebbe data la carne tenera, l’unica che riesco a masticare con le gengive, ora che non ho più denti? Solo il farmacista le avrebbe date le medicine, forse, e il prete un cero, pregando per la nostra morte. Tutti sono in combutta. L’avrebbero scacciata la puttanella, quella che prima si fa sbattere e dopo accusa ingenui ragazzi. E’ proprio vero, è una bimbetta molto furba la mia nipotina! Magari anche i suoi genitori fossero stati altrettanto, ora non sarebbero raminghi per il mondo, a chiedere l’elemosina. I gradini sono finiti, finalmente. La nonna si appoggia con tutte e due le mani: la sinistra su Lucia, la destra sulla ringhiera polverosa; con la bocca aperta cerca di acchiappare quanta più aria le è possibile. Lucia la sente fredda quella mano sulla sua spalla, sente il duro delle ossa. Guarda la porta sgretolata della sua abitazione. All’improvviso si sente sperduta in una solitudine oscura. Il corpo della nonna le appare come un’ombra ostile. Si sente tradita e sente d’aver tradito i suoi genitori. In quello stato di immobilità, nella penombra delle scale, sente già le prime unghiate dei rimorsi, coi quali intuisce che dovrà rassegnarsi a convivere e a far tacere, lacerando ogni volta quell’immagine pulita che s’era fatta di sé, costruita così chiara e dorata dalla sua giovane fantasia. Stranamente le viene di vedersi pecora sotto un cielo bianco.

Entrano in casa; il cigolio accompagna il chiudersi della porta alle loro spalle.


8 commenti:

  1. Un racconto "forte", in cui la tensione è chiaramente avvertibile.
    Mi è piaciuto molto.

    Agnese Addari

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  2. È un racconto bello e terribile, scritto benissimo.

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  3. Un avvenimento che mi prende il cuore! La realtà della vita é qui espressa in modo cruciale, dove le ferite subite devono lasciare il posto alla reazione razionale, presa per intelligenza, invece che pretendere risarcimento morale e fisico. Segno di arretratezza civile alimentata dalla povertà assoluta del posto.
    Lorenzo

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  4. Il brutto è che questa è realtà.
    Scritta e vissuta.
    Costringe a ripercorrere sentieri di memoria dolorosi.
    Ma certe cose vanno raccontate. A costo di far male.

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  5. Racconto che chiude lo stomaco. Ben scritto.

    franca

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  6. E' un encomiabile racconto di denuncia. Encomiabile perchè dalla parte dei deboli. Come dice Renzo, uno schiaffo al cuore e io aggiungerei anche alla giustizia. Purtroppo.
    Giovanna

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  7. Complimenti all'autore.
    Questa storia è una tragedia crudelissima come purtroppo è la vita di tante povere donne violentate e a volte pure assassinate.
    Buon 1 Maggio a tutti
    ♥ vany

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  8. Numerosi gli stati d'animo che si susseguono in questo racconto così amaro da far male.
    Non c'è indulgenza da parte dell'autore, ma la descrizione oggettiva del percorso interiore della ragazza e dell'egoismo della nonna.
    La disperazione della protagonista, prima, il suo amaro calcolo, poi. La legge della sopravvivenza sembra prevalere, eppure il rimorso, sia pure tardivo, fa capolino...
    Tanta realtà in questo bel racconto.

    Piera

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