Lettera
a un quotidiano del mattino
di
massimolegnani
Egregio
Direttore, Gentile Redazione,
mi vedo costretto a scrivervi per affermare un principio e correggere alcune imprecisioni presenti nell’articolo, comparso due giorni fa sul vostro giornale.
“UN SERIAL KILLER TRA NOI” titolava il pezzo che parlava di tre omicidi irrisolti, che la polizia aveva ricondotto ad una stessa mano.
Titolo orrendo, il vostro, dozzinale, segno di una o più menti che non sanno porsi domande e preferiscono scivolare via nell’ovvio. Anche con i pochi elementi a disposizione, le identità degli uccisi, i luoghi e le modalità degli omicidi, qualcuno al giornale, se non alla polizia, avrebbe dovuto comprendere che non si trattava di assassinii fatti in serie, ma di singoli pezzi artigianali.
Credo che non mi si potesse offendere in modo peggiore: IO NON SONO UN SERIAL KILLER.
Non uccido in serie, non faccio stragi, sapete la sventagliata di mitra che va tanto di moda tra gli assassini patentati e tra quelli improvvisati che sbroccano in un pomeriggio di un giorno da cani o i più aggiornati figli di Allah che si fanno esplodere in metropolitana. No io non ci penso proprio a morire, io opero artigianalmente, con passione, vitalità e cura meticolosa per i dettagli. Ogni morte è un pezzo unico, inimitabile.
Consideratemi, se volete, un collezionista, alla stregua di chi raccoglie conchiglie sulla spiaggia o bottigliette mignon o gufi di ceramica. Ditelo pure, non mi offendo, anche se mi reputo migliore di loro, più raffinato.
E poi c’è il cruccio che la mia collezione non esiste se non nella mia memoria ed anche se avessi conservato un particolare di ogni mia vittima, certo non potrei mostrarli agli ospiti alla sera.
Immagino la vostra obiezione, “Collezionista, che parola grossa per tre morti!”
Voi non avete idea.
Diciamo, per aiutarvi a capire, che se fossi il collezionista di gufi in ceramica di cui sopra, bè, non mi basterebbe una fila sul ripiano della mensola per esporre tutti i pezzi. E non ne trovereste due uguali.
È anche per questo che vi scrivo, perchè sia riconosciuta la numerosità e l’eccellenza della mia collezione. Vi confesso che mi manca questo riconoscimento, anche se ho sempre agito perchè nulla apparisse. Morti passate inosservate, le mie. Tranne quei tre omicidi così evidenti che nemmeno voi potevate fare gli struzzi.
Come si comincia una collezione? Tranne pochi casi di gente che nasce con la vocazione e dedica la vita come una missione a raccattare tappi di bottiglia o a battere i quattro angoli del mondo in cerca di pacchetti di sigarette rari, gli altri iniziano per caso, per un’occasione che dà l’avvio, senza che ce se ne renda conto. Così io. A dodici anni mia mamma mi ha chiesto di sopprimere i gattini appena nati che già ne avevamo troppi. Io non volevo, ma lei insisteva che ormai ero io l’ometto di casa. Contava su di me. Che potevo fare? Così li misi in un sacco di iuta e riempii il lavandino d’acqua. Contai fino a cento tenendo il sacco sul fondo con le mani che un po’ tremavano. Ancora bollicine, contai un’altra volta cento, più rilassato. Più facile del previsto. E fu anche gratificante, che alla fine la mamma mi accarezzò su una guancia e mi disse bravo, ometto mio.
La scena mi tornò in mente dopo qualche anno, mentre mi annoiavo al mare. E mi venne voglia di riprovare. Mi guardai intorno, finchè individua una signora anziana, costume nero e cuffia viola in testa, che faceva al caso mio. La guardai entrare circospetta in acqua, aspettai che si spingesse un po’ più al largo, poi mi tuffai anch’io, in un punto distante da lei. Feci un tratto sott’acqua e l’afferrai per un piede. Fin troppo semplice. Partecipai ai soccorsi tentando un’impossibile rianimazione, non certo per un tardivo pentimento ma per regalarmi un brivido supplementare.
Ecco, avevo iniziato la mia collezione.
Mi diedi delle regole, per coltivare meglio il mio passatempo. Vittime occasionali, mai agire per motivi personali, scena del delitto sempre differente, che è troppo facile agire sempre allo stadio al momento del gol, quando potresti ucciderne mille che nessuno ci farebbe caso (in quell’occasione catapultai un tifoso dal parapetto e lo soccorsero solo al fischio di chiusura), evitare i personaggi in vista e finchè possibile i bambini, che poi la polizia s’incarognisce e ti becchi in sovrappiù l’accusa di pedofilia che fa tanto richiamo sui giornali. Ho ucciso un solo bambino. Un’occasione troppo ghiotta per rinunciarvi: sgambettava per l’autogrill che era già buio, probabilmente sfuggito ai genitori. S’era messo a seguirmi, avendomi forse scambiato per suo zio. L’ho caricato in macchina e l’ho fatto volare giù dal primo viadotto. E soprattutto nessuna bella donna, che quelle attirano gli inquirenti come indecenti, tardivi amanti.
Rispettando queste regole, dare la morte è facile. E diventerebbe quasi noioso, se non ci aggiungessi il pepe della fantasia. Escogitare il modo originale, quella è la vera sfida. Il tempo lungo della preparazione, la morte poi è un attimo, il vignaiolo soffocato tra filari solitari, il meccanico vittima di uno strano incidente al fondo buio del suo garage, l’anziano a passeggio col suo cagnolino lungo l’argine che con un piccolo aiuto scivola nel fiume.
Di solito uccido la domenica, perchè ho un lavoro impiegatizio che mi tiene occupato in settimana. Solo alla sera ho modo di studiare i dettagli e preparare gli strumenti, la siringa d’insulina, il coltello a serramanico, il cappio. Poi il sabato mi muovo, vado lontano e la domenica agisco.
E a sera quando torno a casa, mentre sistemo un altro gufo sulla mensola, mi sembra di sentire la mano della mamma che mi regala una carezza sulla guancia, bravo ometto mio.
mi vedo costretto a scrivervi per affermare un principio e correggere alcune imprecisioni presenti nell’articolo, comparso due giorni fa sul vostro giornale.
“UN SERIAL KILLER TRA NOI” titolava il pezzo che parlava di tre omicidi irrisolti, che la polizia aveva ricondotto ad una stessa mano.
Titolo orrendo, il vostro, dozzinale, segno di una o più menti che non sanno porsi domande e preferiscono scivolare via nell’ovvio. Anche con i pochi elementi a disposizione, le identità degli uccisi, i luoghi e le modalità degli omicidi, qualcuno al giornale, se non alla polizia, avrebbe dovuto comprendere che non si trattava di assassinii fatti in serie, ma di singoli pezzi artigianali.
Credo che non mi si potesse offendere in modo peggiore: IO NON SONO UN SERIAL KILLER.
Non uccido in serie, non faccio stragi, sapete la sventagliata di mitra che va tanto di moda tra gli assassini patentati e tra quelli improvvisati che sbroccano in un pomeriggio di un giorno da cani o i più aggiornati figli di Allah che si fanno esplodere in metropolitana. No io non ci penso proprio a morire, io opero artigianalmente, con passione, vitalità e cura meticolosa per i dettagli. Ogni morte è un pezzo unico, inimitabile.
Consideratemi, se volete, un collezionista, alla stregua di chi raccoglie conchiglie sulla spiaggia o bottigliette mignon o gufi di ceramica. Ditelo pure, non mi offendo, anche se mi reputo migliore di loro, più raffinato.
E poi c’è il cruccio che la mia collezione non esiste se non nella mia memoria ed anche se avessi conservato un particolare di ogni mia vittima, certo non potrei mostrarli agli ospiti alla sera.
Immagino la vostra obiezione, “Collezionista, che parola grossa per tre morti!”
Voi non avete idea.
Diciamo, per aiutarvi a capire, che se fossi il collezionista di gufi in ceramica di cui sopra, bè, non mi basterebbe una fila sul ripiano della mensola per esporre tutti i pezzi. E non ne trovereste due uguali.
È anche per questo che vi scrivo, perchè sia riconosciuta la numerosità e l’eccellenza della mia collezione. Vi confesso che mi manca questo riconoscimento, anche se ho sempre agito perchè nulla apparisse. Morti passate inosservate, le mie. Tranne quei tre omicidi così evidenti che nemmeno voi potevate fare gli struzzi.
Come si comincia una collezione? Tranne pochi casi di gente che nasce con la vocazione e dedica la vita come una missione a raccattare tappi di bottiglia o a battere i quattro angoli del mondo in cerca di pacchetti di sigarette rari, gli altri iniziano per caso, per un’occasione che dà l’avvio, senza che ce se ne renda conto. Così io. A dodici anni mia mamma mi ha chiesto di sopprimere i gattini appena nati che già ne avevamo troppi. Io non volevo, ma lei insisteva che ormai ero io l’ometto di casa. Contava su di me. Che potevo fare? Così li misi in un sacco di iuta e riempii il lavandino d’acqua. Contai fino a cento tenendo il sacco sul fondo con le mani che un po’ tremavano. Ancora bollicine, contai un’altra volta cento, più rilassato. Più facile del previsto. E fu anche gratificante, che alla fine la mamma mi accarezzò su una guancia e mi disse bravo, ometto mio.
La scena mi tornò in mente dopo qualche anno, mentre mi annoiavo al mare. E mi venne voglia di riprovare. Mi guardai intorno, finchè individua una signora anziana, costume nero e cuffia viola in testa, che faceva al caso mio. La guardai entrare circospetta in acqua, aspettai che si spingesse un po’ più al largo, poi mi tuffai anch’io, in un punto distante da lei. Feci un tratto sott’acqua e l’afferrai per un piede. Fin troppo semplice. Partecipai ai soccorsi tentando un’impossibile rianimazione, non certo per un tardivo pentimento ma per regalarmi un brivido supplementare.
Ecco, avevo iniziato la mia collezione.
Mi diedi delle regole, per coltivare meglio il mio passatempo. Vittime occasionali, mai agire per motivi personali, scena del delitto sempre differente, che è troppo facile agire sempre allo stadio al momento del gol, quando potresti ucciderne mille che nessuno ci farebbe caso (in quell’occasione catapultai un tifoso dal parapetto e lo soccorsero solo al fischio di chiusura), evitare i personaggi in vista e finchè possibile i bambini, che poi la polizia s’incarognisce e ti becchi in sovrappiù l’accusa di pedofilia che fa tanto richiamo sui giornali. Ho ucciso un solo bambino. Un’occasione troppo ghiotta per rinunciarvi: sgambettava per l’autogrill che era già buio, probabilmente sfuggito ai genitori. S’era messo a seguirmi, avendomi forse scambiato per suo zio. L’ho caricato in macchina e l’ho fatto volare giù dal primo viadotto. E soprattutto nessuna bella donna, che quelle attirano gli inquirenti come indecenti, tardivi amanti.
Rispettando queste regole, dare la morte è facile. E diventerebbe quasi noioso, se non ci aggiungessi il pepe della fantasia. Escogitare il modo originale, quella è la vera sfida. Il tempo lungo della preparazione, la morte poi è un attimo, il vignaiolo soffocato tra filari solitari, il meccanico vittima di uno strano incidente al fondo buio del suo garage, l’anziano a passeggio col suo cagnolino lungo l’argine che con un piccolo aiuto scivola nel fiume.
Di solito uccido la domenica, perchè ho un lavoro impiegatizio che mi tiene occupato in settimana. Solo alla sera ho modo di studiare i dettagli e preparare gli strumenti, la siringa d’insulina, il coltello a serramanico, il cappio. Poi il sabato mi muovo, vado lontano e la domenica agisco.
E a sera quando torno a casa, mentre sistemo un altro gufo sulla mensola, mi sembra di sentire la mano della mamma che mi regala una carezza sulla guancia, bravo ometto mio.
Davvero interessante questa lettera ad un quotidiano, un racconto ironico e tragico insieme, molto originale. Bravo come sempre l'autore.
RispondiEliminaGrazie.
Piera