giovedì 12 gennaio 2017

Un’assurda bravata, di Stefano Giannini

Un’assurda bravata
di Stefano Giannini






Questa storia sconcertante, l’ho raccolta di prima mano dai protagonisti ora già nonni, i cui nomi sono fittizi.
I tempi in cui i personaggi del racconto erano cresciuti furono segnati prima dalla scuola, piena di esaltazione del Duce, del fascismo, della nostra forza bellica, poi dalla guerra, con i suoi orrori e violenze, che avevano negativamente influito sulla formazione di questi ragazzi di campagna, nati lungo i pendii della media Valle del Savio, al centro della Linea Gotica, ultimo baluardo di resistenza dell’esercito nazista.
Era settembre. L’estate del ‘51 era agli sgoccioli. Di giorno faceva ancora molto caldo, ma le serate e le notti erano piuttosto fresche.
I bei ponti sul fiume Savio, fatti saltare nel ‘44 dall’esercito tedesco in ritirata, da pochi mesi erano stati ricostruiti, ed il traffico sulla S.S. N°71, seppur ancora scarso, stava incrementando ogni giorno di più. I camion carichi di legna e merci, le più varie, risalivano e scendevano lenti, la tortuosa strada che collega la Romagna con l’Umbria e la Toscana, oggi surclassata dalla più moderna e veloce E 45.
Quel gruppetto di ragazzi del piccolo villaggio “Casine”, (così erano chiamate undici casette, tutte identiche, fatte costruire nel ‘39 dal Duce per gli sfollati della frana di Sorbano), si trovavano tutte le sere “fuori “, attorno alle case o lungo la scarpata della strada per giocare ai banditi, tirare sassi con le fionde ai pipistrelli che, allora numerosi, saettavano nell’aria, o a spaventare, rincorrendole, le ragazzine che andavano ad attingere acqua alla “fontanaccia” o, sul tramonto, si attardavano a rientrare in casa.
I loro scherzi e dispetti, erano alle volte molto pesanti, quasi cattivi. Qualche volta infliggevano vere torture anche agli animali : gatti, lucertole e quel che capitava.
Per questo, spesso, erano severamente richiamati e puniti dai loro genitori. In quel tempo appioppare qualche scapaccione ai figli scapestrati non era un delitto come oggi, anzi era un mezzo un po’ rustico, ma efficace, per educarli.
Quella sera i “discoli delle casine” con la loro bravata passarono ogni limite.
Sarà stata la rabbia, poiché le vacanze erano finite e l’indomani dovevano ritornare a scuola, sarà stata l’esuberanza dei tredici-quidici anni di ciascuno di loro, comunque sia, il fattaccio si compì.
Il buio era sceso da poco. Le famiglie si erano ritirate nelle proprie case.
Fuori, a fianco della strada statale, “ i masnadieri ” erano solo tre : Pietro, Vittorio e Arnaldo (la banda al completo era composta di cinque elementi). Arnaldo, il capo, (era un ragazzo alto, molto intelligente e vivace, occhi vispi da gatto), disse di aver ideato un piano per dare una lezione ai ragazzi di Montecastello e Mercato Saraceno che sarebbero passati di lì a poco per la strada in bicicletta diretti a Sarsina per andare al cinema o a divertirsi con le ragazzine del nostro paese.
Per convincere Pietro e Vittorio che si doveva punirli proseguì dicendo che: non era giusto venissero da fuori a “rubare” le nostre ragazze e che, alcuni giovani del posto erano stati duramente pestati da quelli di Mercato Saraceno solo perché, in una veglia, avevano osato parlare e ballare con le loro donne.
Quando Pietro intuì che si erano completamente convinti della necessità di dare una “giusta e sacrosanta punizione” a quei “forestieri” che sfoggiavano tanto spregio nei confronti dei paesani, anche per salvare l’orgoglio di campanile affermò che la lezione era da impartire subito quella sera stessa. Così, spiegò il piano, che del resto era molto semplice ; si trattava di sistemare sulla strada (direttrice Sarsina) alcune grosse zolle di terra. Subito furono prelevate in un campo arato nelle vicinanze e dai tre sistemate una a fianco all’altra sull’asfalto. Erano zolle grosse e pesanti, portate sulla strada con difficoltà. Arnaldo e Vittorio espressero qualche perplessità su ciò che potevano causare degli ostacoli così voluminosi. Al’ che, Pietro, con la sua solita sicurezza da “capitano”, spiegò che i pochi camion che a quell’ora transitavano in tale direzione li avrebbero schivati, mentre i ciclisti, quasi tutti senza fanali, non vedendoli, vi avrebbero inciampato e sarebbero forse caduti, ed era ciò che si voleva.
Purtroppo ci fu un’ imprevisto….! I tre ragazzi, alla vista di due fari, apparsi dall’ultima curva che avanzavano sul tratto pianeggiante della statale di fronte alle “casine”, si acquattarono dietro una siepe di alloro poco distante e, silenziosi, assistettero alla scena. Era un grosso camion carico, senza rimorchio, il cui autista si avvide dell’ostacolo solo un’instante prima dell’impatto, d’istinto pigiò forte il freno.
Con gran stridore di gomme, in pochi metri, il camion si fermò.
Prima ancora che l’autista scendesse dalla cabina di guida, si udirono delle urla e lamenti provenire dal retro del camion.
Due ragazzi in bicicletta che, attaccati al camion si stavano facendo trainare, nell’improvvisa frenata, per la forza d’inerzia, avevano sbattuto violentemente contro di esso, ed ora l’autista li trovava a terra sanguinanti e doloranti.
Uno di loro, oltre a varie escoriazioni al viso, ebbe anche una spalla rotta. L’altro riportò ferite ancor più gravi : un polso e il setto nasale rotti, oltre ad un piccolo trauma cranico.
Furono subito soccorsi dall’autista e da altre persone sopraggiunte nel frattempo e trasportati all’ospedale.
I tre “lazzaroni” dopo aver assistito al dramma che avevano provocato e resisi conto della sua gravità, impauriti e rattristati, facendo un largo giro per non essere visti, ritornarono alle proprie case.
Senza proferire parola coi familiari subito si coricarono, ma non dormirono !
All’indomani mattino due carabinieri bussarono alla porta di ognuno di loro intimando ai loro genitori di presentarsi subito in caserma con il loro figlio
Il maresciallo li voleva vedere….!
Qualcuno li aveva notati la sera prima preparare la “ trappola” che poco mancò non fosse stata mortale e aveva suggerito i nomi alle forze dell’ordine.
Effettivamente i due sfortunati ragazzi erano giovani mercatesi che, diretti a Sarsina, avevano approfittato del camion per farsi trainare.
Il Maresciallo, un tipo un po’ strano, con voce grossa snocciolò una lunga ramanzina, rivolgendosi più ai genitori che ai ragazzi e rimarcando la gravità del “delitto” compiuto; concluse dicendo che: avrebbe potuto mandarli tutti e tre al riformatorio dove, a suon di scoppole, avrebbero sicuramente imparato l’educazione ed il vivere civile.
Ma poi, essendo anch’egli padre di un “bravo” ragazzo della stessa età, li perdonava. Però un regalino a ciascuno, perché non dimenticassero, lo voleva fare. I ragazzi gli stavano di fronte in piedi a testa bassa, impauriti e tremanti. Egli, con quelle sue manone tozze e pesanti, sferrò un sonoro ceffone in viso a ciascuno, così su due piedi, davanti ai loro padri esterrefatti, dicendo :“ visto che non siete capaci Voi di educare i vostri figli, vi insegno io come si fa” !
Quello schiaffo, ognuno di loro lo portò impresso addosso per molti anni e forse contribuì veramente a farli maturare, ve lo dice uno che se lo sente ancora bruciare sulla guancia sinistra.


1 commento:

  1. Un altro autore molto interessante, sarà una storia vera, come lui stesso dice, ma è veramente un racconto istruttivo e, per quei tempi, didatticamente valido.
    Grazie.
    Piera

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