Onorina
di Enzo Maria
Lombardo
Il bianco accecante della facciata della Chiesa di
San Cataldo si riverberava sul sagrato e sulla scalinata facendoli tremolare
come fossero immersi nell’acqua bassa di uno stagno e neppure gli alberi che
cingevano lo spiazzo con un abbraccio di verde riuscivano ad attenuare
l’impressione che tutto trasparisse da un mondo d’acqua.
Gli occhi, strizzati fino a diventare due fessure,
portavano lo sguardo a posarsi un poco sulle foglie, a cercare riparo nelle
zona d’ombra fra i muri, oltre la piazza, ma il biancore della chiesa sembrava
sovrastare tutto, ed era inutile anche chiuderli, gli occhi, inutile girarsi
verso le case basse dall’altro lato della piazza: quel biancore restava
impresso nella retina, si sovrapponeva alle case, macchiava le persiane verdi
srotolate sulle ringhiere dei balconcini stretti che oscillavano, pigre, mosse
dal vento caldo.
Come ogni pomeriggio, alle due e mezza, Don Saverio,
cominciò a salire la scalinata tirandosi su la veste da un lato per non farla
strisciare sui gradoni troppo alti. Quel pomeriggio a metà della salita si
fermò, volse il capo di qua e di là nella piazza deserta, gli occhi socchiusi,
accecati dal bianco, la bocca mezza aperta in un ghigno, succhiando l’aria
calda e secca che gli bruciava la gola.
E restò così un pezzo, immobile tra un gradino ed un
altro, guardando torno torno quelle case con gli intonaci
scoloriti, le persiane abbassate, immerso in un silenzio quasi irreale da cui
emergevano, attutiti dalla coltre di caldo, solo i cigolii lontani di qualche
imposta mal chiusa, di qualche insegna oscillante, accompagnate dal fruscio dei
mulinelli di foglie sul selciato.
Poi, respirando a fatica, Don Saverio riprese a
salire, guardando in alto la facciata della Chiesa, quasi fosse una
vetta da conquistare e, quando fu sul sagrato, si rassettò un poco la veste, la
scrollò, la lisciò e fece una smorfia guardandosi le scarpe impolverate.
Indi alzò di nuovo gli occhi verso la chiesa e,
guardando meglio tra le fessure delle palpebre e le ciglia, gli sembrò che
qualcosa si muovesse oltre il portone massiccio, confusa tra le locandine ed i
calendari delle funzioni attaccate alla paratia. Intravide macchie di colore
uscire a stento dall’ombra, muoversi e mischiarsi alle pennellate di
sole che si posavano sui volti emaciati di madonne, tra i grigi ed i neri dei
manifesti.
E fra quelle macchie, anche se nascosta dall’ombra,
gli sembrò di intravedere la figura di una ragazza con vestiti troppo colorati
ed anche se lui non avrebbe dovuto neppure conoscerne il nome, sapeva bene che
quella ragazza era l’Onorina, quella della frazione di Licodia, e sapeva
anche che era venuta per lui.
Con una mano sugli occhi per proteggersi dal
riverbero del bianco si diresse verso il portone ed il suo passo, involontariamente,
diventò sempre più lento. D’un tratto quei dieci metri in leggera salita gli
sembrarono troppo pochi. Aveva bisogno di spazio, pensò, più spazio tra lui e
quella porta. Più spazio per pensare.
Ed anche se laggiù avrebbe finalmente avuto l’abbraccio
della frescura, anche se quella frescura l’aveva agognata sin da
quando era uscito dalla trattoria in fondo al paese, quell’ombra,
quei colori, quelle macchie che si muovevano nel grigio gli sembrarono d’un
tratto ostili, malvage.
Da tempo, ormai, conosceva quella trappola fatta di
panni e carne, di profumi, a volte anche di suoni inarticolati, gutturali, di
parole mugolate.
Anche le macchie di umido della sua camera gli
rimandavano i tratti dell’Onorina. La sera emergeva pian piano il suo sorriso
infantile, si disegnavano sul muro i capelli, gli occhi dallo sguardo ora
mobile e curioso, ora triste ed ottuso. Sempre più spesso, mentre, riverso
sul letto, osservava ad occhi sbarrati il formarsi spontaneo di quelle
immagini, le macchie si allungavano creando i seni, il ventre, le due bianche
colonne setose delle gambe. Poi, pian piano, quelle macchie oscene si
muovevano e si sovrapponevano mostruosamente al crocifisso appeso alla parete
ed ai testi sacri appoggiati sugli scaffali.
Ed allora Don Saverio gridava.
E mentre il suo grido rimbombava cupo tra le pareti,
dolore e piacere si mescolavano dentro, gli stritolavano le viscere, qualcosa
si apriva nel suo ventre, come una mandibola feroce pronta a chiudersi
implacabile, qualcosa lo accarezzava e lo azzannava insieme, qualcos’altro lo
bruciava da dentro, come un’ulcera.
Cos’era questo? Un castigo di Dio? Una prova? Una
manifestazione del Demonio? O forse l’Onorina era solo una dose di quel veleno
che da un po’ di tempo gli somministrava il paese.
Una dose al giorno, pensò Don Saverio
mentre, fermo sul sagrato, ansimava con la bocca aperta. Sì, dosi piccole,
misurate, solo quel tanto da farlo morire a poco a poco.
Forse l’Onorina era tutto questo. Ma in compenso era
anche l’unico essere su cui lui poteva ancora posare gli occhi senza sentirsi
una cosa morta ed anche se l’Onorina era davvero una dose di
veleno, anche se era un’emanazione di Satana o un castigo di Dio,
non poteva, non voleva, farne a meno.
Quel caldo poi, quel po’ di vino buono e quel sole...
sì, oggi gli sembrava di essere ancora vivo con quel sole a picco sulla testa
che gli coceva i pensieri e li mischiava, già fioccosi e molli,
facendoli svaporare in sbuffi di vapore inconsistente.
E quel sole aveva ancora il magico potere di scaldargli
le viscere, restituirgli la vita, come un tempo. Per questo avrebbe
voluto restarsene lì, sulle pietre calde del sagrato, come una lucertola.
E come una lucertola, immobile ma vivo, sarebbe
stato ancora attento a quei colori, a quelle ombre cangianti nell’atrio della
Chiesa, con gli occhi pronti a guizzare sull’Onorina, per succhiare anche oggi
il suo veleno.
Perchè era lei, ne era sicuro, sì, era lei quella
che se ne stava laggiù, rincantucciata dentro il portone, mezza nascosta nel
piccolo atrio. Ancora non la poteva vedere bene, con quel riverbero
negli occhi, ma Don Saverio era sicuro che se ne stava laggiù,
accoccolata come una cagna in attesa del padrone, la gonna corta scivolata sul
ventre, le gambe nude, stese apposta.
E lo sapeva che, appena entrato, gli si sarebbe
srotolata davanti, con le sue mosse da gatta, magari urtandogli i seni sulla
faccia, spremendogli addosso ilsuo odore.
Aspettava solo che lui avesse oltrepassato il
portone. Come un agguato. Come una trappola di quel paese maledetto.
Sì, pensò Don Saverio, forse qualcuno la mandava
apposta. Qualcuno che lo voleva male. Magari il sindaco, il sacrestano o il
diavolo in persona. Mandava l’Onorina apposta, sì, per darglielo da vicino quel
veleno.
Per questo lei gli appariva nelle ore più strane.
A volte di giorno quando il paese dormiva sotto la
coltre di un sole rovente, come adesso. Oppure all’imbrunire, quando lui
scendeva al paese sottano, lungo la scorciatoia che tagliava in più punti
la provinciale.
Ed in quel viottolo deserto lui la vedeva correre. E
correndo rideva. E l’urtava. L’urtava di proposito. Di proposito, certo. Non è
che gli facesse un gran male; no, no, solo un piccolo urto in un
piede, in una caviglia, in un ginocchio. A volte era solo uno smuoversi di
sassi ed un po’ di terra sulle scarpe.
Poi l’Onorina si fermava, sgranava gli occhi
nerissimi e si buttava a terra, accoccolandosi sulle pietre del selciato, una
gamba stesa oltre la gonna, l’altra rannicchiata, mugolando qualcosa a modo
suo, rassettandogli la tonaca con piccoli colpi che a Don Saverio risuonavano
dentro amplificati, fin su, fin sul petto, fino alla gola, fino alla testa,
come se quei colpetti nelle gambe gli facessero vibrare delle corde nascoste.
Oh, sì, in quei momenti, mentre le ombre degli
alberi che cingevano il viottolo si allungavano e sembravano volerlo afferrare
con i loro tentacoli neri, il prete che era in lui avrebbe voluto correre,
mettere uno spazio infinito tra lui e quella ragazza. Scomparire fra le siepi.
E lo aveva fatto, all’inizio. Sì, che lo aveva
fatto. L’aveva lasciata tante volte così, per terra, senza un saluto, senza una
parola, correndo per il viottolo e facendosi sferzare le caviglie dall’erba
alta. E più quelle verghe gli facevano male più lui correva, quasi trasformando
il gioco perverso dell’Onorina in un castigo.
Ma da un po’ di tempo Don Saverio non scappava più
dall’Onorina. Si limitava solo ad accarezzarle il capo, a guardarla negli
occhi. Ed era in quell’attimo che agiva il veleno di quegli occhi. Lo
bloccava a mezzo di una carezza mentre lei si rialzava con le sue
movenze da gatta ed il suo mugolio inarticolato diventava sempre più languido,
a bocca semi aperta, con la lingua sui denti, e, con le due mani, apriva di
scatto la camicia, stirandola ai lati, quasi a volersi strappare una pelle
posticcia, mostrando il collo e l’attacco dei seni. Poi gonfiava il petto e
reclinava il capo in una parodia di abbandono e dalla camicia sempre più aperta
spuntavano i piccoli seni, i turgidi capezzoli.
Certe volte Don Saverio aveva provato a serrare gli
occhi, girando il capo all’indietro, a volte si era compresso il viso con le
palme aperte, e, come un cieco, aveva disceso un poco il pendio
seguendo l’erba alta dei bordi. Ma quello sguardo, lucido e nero come quello di
un animale gli restava appiccicato dentro, disegnato sul nero degli occhi
serrati, ed anche dopo qualche passo da cieco, quelle pupille
nere gli foravano l’anima, lo richiamavano indietro rafforzati da mugolii
imploranti, e lui tornava sui suoi passi, ubriaco e vinto, ancora una volta, da
un demone sconosciuto e potente.
* * *
Ora lei era laggiù, dietro il portone. In agguato.
Strizzando gli occhi per evitare il riverbero gli
sembrò che lei si fosse già sollevata da terra e che stesse per entrare in
Chiesa dalla la porticina laterale.
Don Saverio si accorse di correre e sentì il suo
grido rimbombare nell’atrio, poi spinse la porticina laterale ed il suo urlo fu
amplificato dalla vastità dello spazio: “Dio mio, no” - gridava correndo
– “non in Chiesa, Onorina, non in Chiesa!” ed ansimando e facendosi
lesti segni di croce sulla fronte, girò attorno all’aspersorio, alle colonne e
la vide, di spalle, tra le due file di panche.
Ed anche se gli sfondi d’oro, i marmi e le statue
confondevano la sua figura fino a farla apparire irreale e cangiante; anche se
l’Onorina appariva come un’immagine translucida ed irreale, Don Saverio sapeva
che era lei, sì, lei, oscena nella sua bellezza acerba, altera e a testa nuda,
l’ultima offesa e l’ultima dose di veleno per lui, quella mortale.
Ma una cosa poteva ancora farla. Sì, una cosa doveva
farla per impedire che quel veleno diventasse anche un’offesa per quel luogo
sacro. E la doveva fare subito, finché ancora lo sorreggevano le ultime forze.
E così, ansimando, frugò nelle tasche della sottana
e ne trasse un grande fazzoletto a quadri e con quello in mano si avvicinò a
lei sussurrando: “Tieni Onorina... sul capo... il fazzoletto. Ti prego, copriti
almeno il capo, Onorina... il fazzoletto...”. E mentre sussurrava socchiuse gli
occhi per spegnere la luce colorata che entrava a fiotti dalle finestre ogivali
ed il lucore della pelle di Onorina che traspariva dalla camicetta.
Sempre ad occhi semichiusi Don Saverio stese il
grosso fazzoletto e lo posò sul capo dell’Onorina, rassettandolo bene e stando
attento che le mani non gli scivolassero in una carezza.
Ma quella stoffa era troppo liscia o forse erano
troppo lisci i capelli dell’Onorina. Il fazzoletto oscillò un poco in aria come
un aquilone, poi scivolò di lato e si posò lieve su una panca.
Quando Don Saverio riprese il fazzoletto si accorse
che l’Onorina non s’era mossa di un centimetro.
L’Onorina aspettava immobile. Come una sposa la
vestizione. Come una Santa prima della processione. Gli ultimi tocchi del
sacrestano.
E Don Saverio stese di nuovo il fazzoletto sul capo
dell’Onorina, lo stese ancora con cura, lo tenne persino fermo e teso con le
mani tremanti ma, quando lo lasciò, il fazzoletto oscillò di nuovo in aria,
quasi incerto della direzione da prendere e, dopo un breve volo, si adagiò sul
pavimento.
* * *
Quando, dopo un poco, il sacrestano trovò Don
Saverio rantolante tra le panche, tornò indietro di corsa sul sagrato e
gridando e sbracciando fece accorrere qualcuno dei passanti.
A poco a poco in Chiesa si formò una piccola folla e
chi stava vicino al corpo di Don Saverio, riverso tra le panche, non
riuscì a capire perché mai lui continuasse a biascicare, tra un rantolo e
l’altro, il nome dell’Onorina, quella ragazza scema di Licodia, quella
mezza muta, sì, quella che s’era ammazzata mesi addietro gettandosi dal ponte
dopo che qualcuno l’aveva ingravidata.
“Ci vorrebbero impacchi freddi”- disse
qualcuno cercando di porgli un cuscino sotto il capo – “sono una mano santa
per i colpi di calore”.
Qualcun’altro scorse un fazzoletto sul pavimento, un
grande fazzoletto a quadri, proprio vicino a dove era steso Don Saverio, e
corse a bagnarlo alla fontana.
Quanto é bravo il signor Lombardo!
RispondiEliminaUn racconto, a mio vedere, perfetto.
Agnese Addari
Una storia costruita egregiamente, un intreccio avvincente, un inizio che è una descrizione straordinaria e che dà l'avvio ad un racconto che avvolge il lettore introducendolo negli spazi oscuri della mente e soprattutto del cuore presenti in ogni uomo. Un viaggio dentro l'animo, una lotta impari, già persa in partenza. Poi, la svolta, l'ultimo tentativo. La conclusione spiazza, sconcerta, non era prevista e fa riflettere.
RispondiEliminaUn bellissimo racconto letto con partecipazione fino alla fine.
Una domanda: perché i veri scrittori hanno così poca popolarità?
Grazie, Renzo, per questa bella proposta.
Piera